30.3.19

L'Italia di Camus (Piergiorgio Bellocchio)


Vecchio pezzo, vivamente consigliato. (S.L.L.)


Ogni volta che in questi ultimi tempi sentivo blaterare di disunire l’Italia, la mia reazione era quella di chi subisce un’offesa profonda. Non importa che quei biechi spropositi venissero successivamente ridimensionati o smentiti: il solo fatto di averli formulati era intollerabile. Ma che cosa reagiva immediatamente in me? Qual era il punto sensibile? Quale idea o sentimento del mio Paese? Devo rispondere: Dante, Machiavelli, San Francesco, Michelangelo, Leopardi, Manzoni, Verdi... Non Garibaldi, Mazzini, Cavour. La lingua, l’arte, la cultura, ben prima e al di sopra della politica. Solo chi non ha amato i versi di Dante, le chiese romaniche, i corpi e i volti che i nostri artisti hanno fissato negli affreschi, nelle tele, nella pietra, nel bronzo, solo chi non sente tutto questo come patrimonio fondamentale dell’anima, può concepire di dividerlo e disperderlo, come farebbe un bambino o un barbaro. Ma a parte la bruta ignoranza, l’abissale incultura della nostra classe politica vecchia e nuova e di chi ci governa dal video, che cosa resta di questo patrimonio nella società, nella vita del Paese?
M'è capitato recentemente di leggere i Taccuini di Camus, una sorta di “diario di lavoro” dove i fatti privati prendono pochissimo spazio. Paradossalmente le pagine più intime, di maggior abbandono sentimentale, sono quelle che si riferiscono ai suoi viaggi in Italia, tra il 1937 e il 1955. La lista degli scrittori e artisti stranieri innamorati dell’Italia è lunghissima e prestigiosa: l’inglese, il tedesco, lo scandinavo, cercano anzitutto e trovano «il paese dove fioriscono i limoni e brillano le arance d’oro», come canta la Mignon di Goethe. Ma Camus non viene dal Nord, il sole e il mare dell’Algeria sono stati il suo elemento nativo e formativo. Ciò che più lo colpisce e l’affascina in Italia è il rapporto miracolosamente armonico tra i tesori d’arte, il paesaggio, gli abitanti. «Qui ogni città conta, col suo volto e la sua verità profonda». Dal «volto» delle città a «quei gravi volti di donna, improvvisamente sciolti in una risata». Ancora:«Avviandomi verso Firenze, mi sono soffermato su certi volti, ho bevuto certi sorrisi». Dopo aver visitato una mostra dedicata a Giotto, constata che «i volti dei primitivi fiorentini sono gli stessi che si incontrano per strada ogni giorno».
Ho citato dalle impressioni del primo viaggio, di un Camus appena ventiquattrenne. Quasi vent’anni dopo, ormai famoso, Camus torna in Italia per un lungo giro di conferenze. «Mi sembrava che in Italia mi aspettassero la mia giovinezza e nuove forze e la luce perduta». Si rinnova il miracolo. Commozione, «gioia misteriosa», felicità. «Ora bisogna cambiar vita». «Mi pento qui degli anni neri e stupidi che ho vissuto a Parigi». Passeggiando sulla Via Appia, «mi sentivo con il cuore talmente pieno che in quel momento sarei potuto morire».
L’anno successivo è ancora in Italia. La pagina di congedo, di cui riporto qualche passo, è una testimonianza d’ammirazione e d’amore così intensi e incondizionati da riuscire perfino imbarazzanti. «Al termine della mia vita vorrei tornare sulla strada che scende nella valle di San Sepolcro, percorrerla lentamente, camminare fra i fragili ulivi e i lunghi cipressi e trovare, in una casa dai muri spessi e dalle stanze fresche, una camera nuda dalla cui st retta finestra io possa guardare la sera che scende sulla vallata».
L’elenco dei luoghi che desidera ritrovare prosegue con Arezzo e Gubbio. Non può fare a meno di avvertire qualche elemento di disturbo: vorrebbe rivedere Assisi, ma «senza turisti e senza Vespe», e Perugia «senza le case che le costruiscono intorno»...
“Ma soprattutto, soprattutto, rifare a piedi, con lo zaino sulle spalle, la strada da Monte San Savino a Siena, costeggiare quella campagna di ulivi e di viti, di cui sento ancora l’odore, percorrere quelle colline di tufo bluastro che s’estendono sino all’orizzonte, e vedere allora Siena sorgere nel sole che tramonta con tutti i suoi minareti, come una perfetta Costantinopoli, arrivarci di notte, solo e senza soldi, dormire accanto a una fontana ed essere il primo sul Campo a forma di palmo, come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande. Sì, vorrei rivedere la piazza inclinata di Arezzo, la conchiglia del Campo di Siena e mangiare ancora i cocomeri per le strade calde di Verona. Quando sarò vecchio, vorrei che mi venisse concesso di tornare su quella strada di Siena, che non ha eguali nel mondo, e di morirvi in un fossato, circondato soltanto dalla bontà di quegli italiani sconosciuti che io amo”.
Non fosse morto nel ’60, e della più moderna delle morti (incidente automobilistico), oggi Camus avrebbe ottant’anni. Il Campo di Siena lo troverebbe ancora, e Assisi, Gubbio, Urbino, Firenze... anche se, altro che Vespe! Altro che quelle poche brutte case che quarantanni fa cominciavano a deturpate una civiltà millenaria! Nelle chiese e nei musei ci sono ancora i Duccio, i Donatello, i Masaccio, i Caravaggio. Ma gli uomini e le donne? Escludo, ahimè, che Camus potrebbe riconoscere i tratti di Giotto e di Piero nelle facce ebeti e soddisfatte del nuovo italiano telecomandato.

Da Al di sotto della mischia. Scritti e saggi, Libri Scheiwiller, 2007

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