2.3.19

Simone Weil. Una donna chiamata Lazzaro (Enrico Filippini)



Non c’è nessun movimento, nessun momento, nessuna aggregazione, nessuna istanza, nessuna cultura, nessuna politica e nessuna religione, in Italia e in Europa, che possano sollecitare l’interesse per Simone Weil. Anzi, come notava Maurice Blanchot in un memorabile saggio su di lei, «per alcuni il pensiero di Simone Weil è così irritante che quasi non lo considerano un pensiero...». Non ci sarebbe nessuna ragione di occuparsi di Simone Weil se non fosse appunto che non c’è nessuna ragione apparente.
Simone Weil, per cominciare, non andrebbe confusa con la quasi omonima signora del Parlamento europeo: morì , tanti anni fa, il 30 agosto del 1943 in Inghilterra, al Grosvenor Hospital di Ashford nel Kent. Era tubercolotica, ma morì di fame; e il coroner sentenziò che si era trattato di un «suicidio in situazione di turbamento mentale». Naturalmente era vero, com’è vero tutto ciò che il buon senso e la ragionevolezza possono dire di lei, ritraendosene irritati, sgomenti e perfino nauseati. Ma questa verità è una banalità al confronto con la «verità» di Simone Weil, di cui ancora Blanchot dice che era «analoga all’indicazione oscillante e a volte disorientata dell’ago magnetico, che non dubita mai del polo, anche se situarlo si rivela impossibile...».
Insituabile, intrattabile, abbagliante e pericolosa: così si potrebbe dire della sua vicenda e di lei, se non fosse dir poco, e se non fosse che, a un certo momento, quella vicenda trovò un supporto inatteso: la certezza assoluta dell’esistenza del «Bene» e, forse più ancora, la «certezza di Dio». Così, soprattutto in Italia, la figura della Weil (soprattutto quella di La conoscenza soprannaturale) si stilizzò in un’immagine di «purezza» e di «santità» ad uso di una certa cultura cattolica priva di ogni vigore e a volte anche notevolmente filistea; così come la Weil precedente, precedente anche il Fronte popolare del 1935 di cui decifrò la «tragedia», cioè la Weil della Condizione operaia (tradotta da Franco Fortini per Comunità nel 1952), e poi dell'Enracinement e delle «esperienze contadine», si stilizzò in una specie di geniale assistente sociale di gusto olivettiano o di patrona delle imprese di Danilo Dolci nel Sud...
La Weil si presta moltissimo ai fraintendimenti: sulla sua opera, e anche sui fraintendimenti, si potrà tornare in autunno, quando Adelphi pubblicherà i Taccuini, quei «Cahiers» che iniziò a tenere intorno al ’30 e a cui affidò la sua immedicabile e geniale irrequietezza; per ora, a raccomandare cautela nelle «appropriazioni», basterà rammentare il significato di quel «supporto», del nome di Dio: per la Weil, «Dio» non vuole dir niente, Dio è niente...
Quando morì, al Grosvenor di Ashford, aveva trentatré anni, anzi «l’età di Cristo», perché era nata a Parigi il 3 febbraio 1909 da una formidabile famiglia ebrea: ricca, molto integrata, laica e molto colta. Per il fratello maggiore, piccolo genio matematico, provò sempre una «solidarietà magica», anche se il confronto con lui le provocò a quattordici anni una «crisi di disperazione», da cui riemerse intuendo una «vocazione alla verità» e sottoponendosi a un «dressage» intellettuale e morale durissimo, in vista di un’«assoluta limpidezza dell’attenzione». Per il padre e soprattutto per la madre, che era «un po’ possessiva», provò sempre, insieme con un affetto sconfinato come tutti i suoi sentimenti, un senso, se non di insofferenza, di insubordinazione, e un bisogno di nuocere che era appena più blando del bisogno di nuocere a se stessa.
Annoto queste cose perché basterebbe la parola «dressage» per mettere i brividi nella schiena, e perché alludono a una cosa di cui non si può tacere, come invece fa pudicamente la sua ultima e attenta biografa, Gabriella Fiori (Simone Weil, biografia di un pensiero, Garzanti, pagg. 378, lire 12.000): il «romanzo familiare», benché così «rosa», della Weil la affiderà fin dall’inizio a una devastante nevrosi.
Capisco che il vocabolo è sgradevole perché puzza di clinica e di cliché e sembra implicare un giudizio. Ma non è una buona ragione per non usarlo: è solo un edificante pregiudizio. La biografa annota che durante l’allattamento il latte materno si guasta e «la bimba comincia a deperire», ma non connette questo incidente col fatto che per tutta la vita mangerà pochissimo, fino alla denutrizione, e che m punto di morte rifiuterà soprattutto il latte... Oppure osserva che «Simone ci appare come perennemente intralciata da questa precarietà di salute che la insidia, malgrado le cure attente di una madre moderna. Forse, già da quest’epoca della sua vita, il corpo comincia a diventarle estraneo...». Ma non connette tutto ciò con la bella e soave annotazione di due pagine più avanti: «Quella famiglia formava un corpo solo...». Malgrado le madri moderne, e benché la feroce dilapidazione di sé cui la Weil si sottopose possa suscitare ulteriori brividi di atterrita ammirazione, ci sono intere biblioteche al riguardo...

Vorrei suicidarmi
Così, «intralciata» dal corpo e «priva» del corpo, scostante e severa, esigentissima sul piano intellettuale, preparò l’ mmissione all’Ecole Normale Supérieure con Alain (Emile Chartier), un filosofo ingiustamente dimenticato, Socrate-levatrice di tanta cultura francese degli anni Trenta, che varrebbe la pena di rileggere (Einaudi lo ha pubblicato e che deve essere stato bellissimo ascoltare: per la sua franchezza, il suo rigore e la sua paradossalità. Anche allora c’era il riflusso, e, tanto per dare un’idea, insieme alla venerazione dei Grandi Classici, e insieme al socialismo o meglio alla «Rivoluzione vera», Alain insegnava che «è l’istituzione che salva il sentimento...»,, e che «bisogna credere al bene, perché non esiste...».
Anti-borghese, «bolscevica», e filocomunista, anarchica, pacifista; e poi: trasandata, stracciona, goffa, fumatrice, androgina, e asessuale, abituata a dormire per terra e già torturata da martellanti emicranie...: fu lì, e poi alla Normale, e poi al Servizio civile internazionale nel Liechtenstein, e poi tra i pescatori della Normandia, che la Weil condensò quel «desiderio di azione», quella «gioia», quell’intransigenza morale, quell’impazienza e quella frenesia che a volte assunsero perfino tratti caricaturali, che Trozkij, suo ospite clandestino, giudicò con stupore e fastidio, come tipici dell’Esercito della Salvezza, e che tra il ’31 e il ’34, la spinsero, professoressa di filosofia a Le Puy, a Auxerre, a St. Etienne, a «scendere nelle miniere», a praticare in forme estreme ed estremamente scandalose una sorta di iper-sindacalismo esistenziale.
Il 4 dicembre 1934 entrò in fabbrica, «si fece operaia» presso la Société de Constructions électriques et mécaniques Alsthom, ripromettendosi di suicidarsi se avesse fallito la prova e così motivando, molto significativamente, la sua domanda di congedo: «È mio desiderio preparare una tesi di filosofia sul rapporto tra la tecnica moderna, base della grande industria, e gli aspetti essenziali della nostra civiltà, ossia, da un lato, la nostra organizzazione sociale e, dall’altro, la nostra cultura...».
Quello che la Weil ricaverà dalla sua esperienza operaia, relativamente alla scienza, diventata «mero gioco di segni», alla tecnica, ai misteri della macchina, al corpo dell’operaio, alla stanchezza e alla spossatezza («il lavoro è come la morte...»), alle possibilità e alla desiderabilità di una rivoluzione, agli apparati di partito e sindacali, alla «vita moderna» e alla fame dei disoccupati, alle illusioni dell’interiorità e della privatezza, al «sociale» e al «politico», alla «distruzione del tempo»..., in generale ciò che ricavò relativamente alla «cultura operaia» è più interessante di quasi tutto ciò che su queste cose è stato scritto e detto prima e dopo di lei. Ma per quanto la riguarda, è oltremodo interessante e significativo che da quell’esperienza traesse un nuovo impulso all’«addestramento» e a un’«etica del lavoro», accompagnato da questa definitiva certezza: «Non potresti desiderare di essere nata in epoca migliore di questa, in cui tutto è stato perduto...».
Nel 1932 aveva fatto un viaggio in Germania e aveva descritto il Reich imminente, attirandosi accuse di «disfattismo»; nel 1933 era stata in Spagna e aveva intravisto la guerra vicina e il suo inedito contributo alla storia dell’orrore: si faceva infilare spilli sotto le unghie per addestrarsi alle torture... Georges Bataille, l’altro genio degli anni Trenta francesi, la descrisse col cognome di Lazare (che «si addiceva al suo aspetto macabro») nel romanzo L’azzurro del cielo: «...Tutto, in lei, l’andatura a scatti e sonnambulica, il tono della voce, la facoltà che aveva di proiettare intorno a sé una specie di silenzio, la sua avidità di sacrificio contribuivano a dar l’impressione che avesse contratto un patto con la morte...».
Nel 1936 tornò in Spagna, militò tra le truppe anarchiche di Buenaventura Durruti, riuscì a ferirsi mettendo un piede in una padella d’olio bollente, e dopo un lungo ed estatico viaggio in Italia, tornò in Francia a insegnare e ad aspettare la guerra vera: aveva capito subito che quella di Spagna era una guerra preparatoria tra Urss, Germania e Italia, non una guerra di liberazione o per la libertà.
A partire dall’autunno del ’37 o dalla settimana santa del ’38, che passò nell’abbazia benedettina di Solesnes, ebbe inizio la sua vicenda teologica, che non fu soltanto una maniera di «vivere all’interno dell’anima» e non fu una semplice adesione al cattolicesimo. Non si fece mai battezzare, non accettò mai la Chiesa in quanto apparato, e se aveva sempre mostrato freddezza e distacco verso la teologia ebraica (la Weil e l’ebraismo: sarebbe un lungo capitolo), non aderì neppure alle teologie della grazia cristiane, né positive né negative. Se si confrontano le sue arruffate meditazioni religiose e le note su Hitler prima e dopo l'Anschluss (Hitler come continuatore dell’impero romano e come esaltatore perverso di elementi che erano già nella civiltà politica e giuridica europea), la sua teologia appare innanzitutto come una critica radicale, molto più radicale di tutte le altre, al sistema di civiltà occidentale.
In un senso più strettamente teologico. Blanchot nota, credo con ragione, che la Weil ricuperò almeno una delle correnti della mistica ebraica, l’idea per cui «il problema centrale della creazione è il problema del nulla»: «È necessario che non ci sia niente, che il niente sia: ecco il vero segreto e il mistero iniziale, un mistero che dolorosamente comincia in Dio stesso, -— con un sacrificio, un ritrarsi e una limitazione... Là dove c’è il mondo, c’ è un doloroso difetto di Dio...».

Per De Gaulle era pazza
Il problema era dunque quello della «rinuncia», che la Weil associò all’idea «politica» di «sventura» e a quella etica di «attenzione»: «La rinuncia in noi è il vero Dio», e se noi trasformiamo l’abbandono passivo in «abbandono attivo», se «ci diamo abbandonando», noi potremo «riafferrare», come dice Blanchot, «tutto ciò che ci manca e proprio in quanto ci manca...».
Quando scoppiò la guerra, la Weil fuggì in Marocco, poi negli Stati Uniti, poi tornò in Inghilterra, dove entrò in contatto con gli uomini di De Gaulle, André Philip, Maurice Schumann... Si offrì per «una missione segreta, di preferenza pericolosa» ed elaborò un «Progetto per una formazione di infermiere di prima linea», che indusse De Gaulle ad esclamare: «Ma è pazza!»... Sarebbe stato impensabile che non fosse così e che tornasse in Francia a celebrare «la Liberazione»; il «progresso» le appariva da tempo una mitizzazione delle forze produttive; la scienza e la lunga storia della secolarizzazione affidate a un destino di distruzione; la vittoria una lugubre vendetta, e la pace un preludio alla guerra. Come aveva intuito Bataille, il suo approdo non poteva essere che il sacrificio: «Ciò che è oscuro è fonte di luce...».
E certo, il sacrificio, come la nevrosi, è un arcaismo, generalmente attribuito alle società barbariche; ma sfortunatamente nulla prova che questa attribuzione sia lecita e che esso non sia, invece, ciò che cerchiamo di non pensare: il baratro al tempo stesso dimenticato e per ora ineliminabile che sta sotto alle piramidi della modernità. Così, se non c’è nessuna ragione apparente di occuparsi della Weil, ce n’è una essenziale, che purtroppo è sempre meno nascosta.

“la Repubblica”, 12 luglio 1981

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