26.3.19

Troppi Rousseau (Daniele Giglioli)



Su Rousseau circola da due secoli una vulgata che sarebbe caritatevole chiamare liberal-conservatrice, quando invece è francamente reazionaria: pura propaganda. Suona così: Rousseau è il cattivo maestro dei giacobini. Un precursore del totalitarismo. Da Rousseau si va diritti al gulag. Fosse per lui cammineremmo tutti a quattro zampe (questa a dir il vero era di Voltaire, e infatti almeno fa ridere). Ricostruzione che non sta né in cielo né in terra: se i giacobini fecero quel che fecero non fu per fanatismo rousseauiano, ma perché costretti a inventarsi soluzioni in fretta e furia nella brutale emergenza in cui versavano. Chi voglia comunque farsene un’idea può ricorrere al libro di un vecchio arnese da Guerra Fredda come lo storico israeliano Jacob Talmon, Le origini della democrazia totalitaria (Il Mulino, 1952) screditatissimo tra gli studiosi, ma incredibilmente citato ancora oggi come autorità in molti articoli di giornale: i luoghi comuni non muoiono mai.
Ma il buffo è quanto il falso Rousseau dei reazionari somigli, nella pratica se non negli intenti, almeno espliciti, al Rousseau cui il Movimento 5 Stelle ha intitolato la sua nuova piattaforma informatica in omaggio al cofondatore Casaleggio recentemente scomparso, il quale considerava Jean-Jacques «il padre della democrazia diretta». Ora, a un movimento che si pretende rivoluzionario e però chiama «direttorio» il suo organismo dirigente (laddove il Direttorio non segnò l’inizio, ma la fine della Rivoluzione francese), non si ha cuore di chiedere troppe pezze d’appoggio filologiche. E poi la politica cerca il suo bene dove lo trova e ha tutto il diritto di non andare troppo per il sottile.
Ciò che sorprende non è dunque questo, ma lo scarto tra le dichiarazioni (Rousseau profeta di una democrazia «più democratica» di quella rappresentativa) e la prassi: decisioni inappellabili dall’alto, trasparenza pretesa solo in basso, autorità carismatica dei fondatori, ossessione per una corruzione che alberga non tanto nel sistema, ma nel cuore stesso degli esseri umani, tutti criminali in potenza da sorvegliare in ogni singolo aspetto della vita, quando Rousseau diceva invece che l’uomo nasce buono ed è la società che lo perverte. Più che Rousseau questo è De Maistre, un reazionario della più bell’acqua; o al massimo, appunto, il Rousseau sfigurato (forse perché segretamente desiderato?) dalla propaganda reazionaria. Da cui la domanda: cosa accomuna le due interpretazioni?
Non certo il piatto adagio che gli estremi si toccano. Piuttosto il rifiuto, il rigetto, l’orrore per la contraddizione. Il pensiero di Rousseau è contraddittorio. Lui stesso lo sapeva. Non ha mai preteso di spacciare formule pronte per l’uso. Le soluzioni che avanzava servivano più a criticare lo stato di cose che a proporne in concreto uno diverso (è questa, da sempre, la funzione dell’utopia: additare le crepe del presente, non indicare un ordine perfetto che, se realizzato, diverrebbe un incubo incriticabile).
Il problema attorno a cui si è sempre arrovellato è il seguente: come rendere gli uomini liberi se sono loro i primi a non volerlo? A questo rispondono le finzioni teoriche e narrative del pedagogo nell’Emilio, del legislatore nel Contratto sociale, di Wolmar in un romanzo come La nuova Eloisa, che allestisce un microcosmo familiare dove la menzogna è bandita e tutti vivono all’insegna di una trasparenza che implica assoluta fiducia nella veridicità altrui.
Esperimenti di pensiero. Casi limite, così come un caso limite era per Rousseau quello «stato di natura» originario di cui lui stesso diceva che «probabilmente non è mai esistito e probabilmente non esisterà mai». E così come altrettanto un caso limite è la pretesa, nelle Confessioni, di essere stato l’unico a tentare l’«impresa senza esempi» di mostrarsi esattamente com’era, con tutto il suo bene e il suo male, episodi vergognosi compresi. Pretesa in cui era trasparente un ricatto: se vi racconto anche i miei lati più ripugnanti siete obbligati a credermi su tutto. E del resto già nelle opere politiche Rousseau insisteva su quanto il pedagogo e il legislatore debbano spesso ricorrere a suggestioni, mezzucci e perfino imposture per conseguire i loro scopi: il pedagogo che finge di smarrirsi con Emilio nella selva in modi che questi impari a sbrigarsela da solo; Numa Pompilio che consulta la Ninfa Egeria nella grotta o Mosè che chissà quanto a lungo si sarà girato i pollici sul Sinai prima di ridiscendere con le tavole della legge.
Ciò che Rousseau, in altre parole, ha pericolosamente messo a nudo, un secolo e mezzo prima di Nietzsche e di Max Weber, è l’origine infondata e irrazionale di ogni istituto razionale, l’abisso inscrutabile che presiede alla genesi di ogni soggettività individuale e collettiva. E tutto ciò in pieno Illuminismo, quando le migliori menti della sua generazione si beavano di credere che la ragione fosse un processo naturale, progressivo e irreversibile che avrebbe finito per imporsi da sé. Un ottimismo che Rousseau non ha mai condiviso: non a caso l’utopia di Wolmar nella Nuova Eloisa finisce male; lui stesso diceva che nessun popolo europeo avrebbe mai potuto mettere in pratica il Contratto sociale; in un abbozzo di continuazione dell’Emilio, cioè Emilia o I solitari, il suo pupillo viene tradito dalla sposa che il precettore gli aveva allevato come anima gemella; mentre nelle opere autobiografiche successive alle Confessioni (Rousseau giudice di Jean-Jacques, Le fantasticherie di un passeggiatore solitario) è costretto ad ammettere che la trasparenza promessa era impossibile e non aveva potuto fare a meno di abbellire, integrare, ritoccare. Contraddizioni penetrate nelle fibre più intime della sua psiche, negli anni sempre più minata dalla paranoia e dalla mania di persecuzione, fino all’ipotesi di un complotto universale ai suoi danni che vedeva coinvolti i suoi ex amici enciclopedisti e i gesuiti, i magistrati di Ginevra e le corti europee…
Che cosa fanno invece i maldestri esegeti di Rousseau? Laddove Jean-Jacques crea metafore geniali per mostrare quanto rischiosamente si articolino desiderio e pericolo, loro prendono le metafore alla lettera, scambiano le finzioni per verità, elevano a norma un esperimento. Alla contraddizione preferiscono la paranoia. Qualcosa di simile accadde a un altro sperimentatore abissale poi sprofondato nella demenza come Nietzsche: tra il cantore della bestia bionda celebrato dai nazisti e il conciliante fricchettone dei postmoderni (niente fatti, solo interpretazioni, tana libera tutti) ci sono più punti di contatto di quanto non si creda. La semplificazione è tanto necessaria in politica — dove bisogna scegliere: repubblica o monarchia, divorzio sì o no, nazionalizzare o privatizzare — quanto stupida nel pensiero. Ma più stupido ancora è confondere i due piani: chi lo fa si condanna all’impotenza o al disastro; nel migliore dei casi, al ridicolo.

La lettura / Corriere della sera 29/05/2016

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