3.3.19

Una storia dantesca nella Sabina del Terzo Millennio (Igor Mann)



«Amor, ch’ai cor gentile ratto s’apprende / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende».
Chissà se quando i suoi genitori dissero «no», Rosa conosceva i versi di Dante che terribilmente cantano l’amor disperato di Paolo e Francesca. Chissà.
A Torricella in Sabina, cinquanta anni fa, Giuseppe, complice lo struscio domenicale, si innamora di Rosa. Ricambiato. Poiché son due ragazzi puliti e non gli basta qualche veloce, furtivo incontro - giusto il tempo di afferrarsi le mani sino a stritolarle, quasi; le labbra che si sfiorano mentre il sangue corre altrove e la testa ti si svuota perdutamente -, visto che sanno di amarsi sul serio decidono di seguire le norme del villaggio. Giuseppe bussa alla porta dei genitori di Rosa, lo fanno accomodare «in sala», gli offrono un bicchierino di rosolio fatto in casa e il ragazzo «si spiega». Rosa è di là che attende d’esser chiamata. Ma invece del grande momento sente l’uscio di casa richiudersi alle spalle di Giuseppe. Come mai, perché?, domanda e suo padre, grave, le dice che certamente Giuseppe è un bravo figliuolo, onesto e faticatore, però è di «umile condizione, un semplice bracciante» e come tale non può aspirare alla mano di una signorina figlia unica «di agricoltori abbienti». Rosa incassa, scappa in camera. E piange. Giuseppe non piange ma decide, per alleviar la pena, di lasciare il villaggio. Per sempre. Emigra in Sudamerica.
Passano gli anni e Rosa si sposa: con un (bravo) ragazzo del suo paese, anche lui faticatore onesto con in più un bel parco di ulivi generosi d’olio, e due case: una in campagna, l’altra nel cuore del paese. Giuseppe rimane scapolo e quando, oramai imprenditore di successo, decide di tornare in patria, preferisce sistemarsi a Monterotondo: di vivere nel villaggio dove mezzo secolo fa subì il gran rifiuto, non se la sente affatto. Ma un giorno, aprendo il Corriere di Rieti legge che il marito di Rosa è morto sicché spedisce subito a colei che ricorda giovinetta due parole di conforto. Che non hanno risposta.
Un giorno di tre mesi fa, però, sollecitato da una imperiosa scampanellata, Giuseppe apre l’uscio di casa e chi ti vede: Rosa.
«Sei sempre la stessa», mormora e non è una (pietosa) bugia, la sua, ma la verità giacché l’ottica di una persona innamorata non è quella dei comuni mortali. «E tu non sei cambiato affatto, sei sempre il solito bugiardo. Mi avevi giurato amore eterno e non hai nemmeno cercato di smuovere mio padre...». Ma, «tutto questo è passato», dice saggiamente lui, «pensiamo a rifarci del tempo perduto». E infatti i due «si fidanzano» e, poi, visto che il rapporto funziona decidono di sposarsi. Ottant’anni lei, ottant’anni lui.
Questa storia è pateticamente banale, d’accordo, se non fosse che. Se non fosse che tornati al villaggio dopo un viaggio di nozze rituale (Roma, Venezia), i due spacchettano i doni nuziali. Le solite robe ma con in più un grosso baule rosso sigillato con spago robusto e vivida ceralacca. «E questo che d’è», domanda Giuseppe e Rosa: «Aprilo e levati la paura», sorride enigmatica. Lui apre, solleva il coperchio del baule e, come suol dirsi efficacemente, non crede ai suoi occhi. Il baule è pieno, tutto pieno, di lettere. Lettere d’amore. Quelle che, senza mai saltare un giorno, Rosa ha scritto a Giuseppe «cuore mio». «Qui c’è tutta la mia vita in attesa del tuo ritorno. Giorno dopo giorno ti ho detto «ti amo», ti ho detto «non ti dimenticherò» e ancora: «Saremo in due, quando Dio vorrà».
E qui voglio rimarcare una cosa sola affinché il lettore insieme con me rifletta: durante cinquantanni Rosa ha quotidianamente scritto a Giuseppe. Non potendo impostare le lettere poiché di Giuseppe ignora il recapito, Rosa trasforma un baule rosso in una buca delle lettere. D’amore. Adesso son lì che le leggono, i due «vecchietti». Un mucchietto al giorno, da qui all’eternità.

Il ritaglio, una pagina senza data di “Specchio”, il “magazine” de “La Stampa”, risale probabilmente al 2005.

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