17.3.19

Una voce rivoluzionaria. Billie Holiday, lo strano frutto del jazz (Claudio Sessa)


Di tutte le (poche) icone femminili del jazz, certo quella più celebrata è la tragica cantante Billie Holiday, morta a 44 anni nel 1959, la cui voce ancora oggi è considerata inarrivabile. Molti sono i motivi di questa predilezione, qualità artistiche a parte.

Easy Living (1 giugno 1937)
Una vita dickensiana, con uno stupro infantile, un’adolescenza nei bordelli, la rivelazione canora prima dei vent’anni, l’ascesa alle stelle e la ricaduta nella polvere a causa di una tossicodipendenza connessa agli infelicissimi rapporti sentimentali. E poi un’identificazione con i testi del proprio repertorio di cantante che si modificò nel tempo (vi alludono i titoli dei suoi brani che scandiscono l’articolo), soprattutto quando nel 1939 accettò di interpretare Strange Fruit, un song politico che descrive un linciaggio: da quel momento Billie incarnò [a volte controvoglia) le nuove avanguardie della cultura afroamericana, ben prima dell’avvento rivoluzionario del bebop. Ancora, le drammatiche trasformazioni della sua voce, dall’istintiva visceralità degli esordi alla pienezza felina degli anni Quaranta, al ridimensionamento spettrale (ma saturo di espressività) del declino finale.

All Off Me (21 marzo 1941)
Per tutti questi motivi la letteratura su di lei è vasta anche in Italia, a cominciare dalla sua discussa autobiografia, La signora canta il blues (Feltrinelli). Ora per il Saggiatore, che già nel 2007 aveva pubblicato il fascinoso Lady Day di Julia Blackbum, esce l’analisi critica Billie Holiday scritta da John Szwed: di lui sempre il Saggiatore ha tradotto la biografia di Miles Davis So What, minimum fax Space is the Place su Sun Ra e la Edt la breve guida Jazz!. Szwed segue un percorso tematico. Osserva «il mito» della cantante, partendo dalla biografia redatta per lei dal giornalista William Dufty ed esplorandone i vari livelli di «verità», per poi studiarne l’immagine pubblica. Passa quindi alle tappe fondamentali della sua vita, ciò che serve a seguirne il percorso professionale, infine analizza il suo ruolo di cantante. «È strano come molti libri su di lei riservino alla sua musica un interesse secondario», dice nell’introduzione Szwed. Che nelle ultime pagine ribadisce di aver voluto «spostare l’attenzione sulla sua arte», rispetto ai mille pettegolezzi; ma confessa anche di essersi trovato «coinvolto nei dettagli della sua vita così come lei e gli altri li avevano rappresentati». Alla fine, il saggio scolpisce una figura a sbalzo, alcuni lati della quale sono illuminati meglio di altri.

Fine And Mellow (20 aprile 1939)
Si tarda un po’ a trovare il promesso approfondimento musicale: arriva verso metà libro, quando Szwed esplora il modo in cui Billie Holiday piega le singole parole delle canzoni e si allontana creativamente dalla pulsazione ritmica del brano (un procedimento simile a quello che usa lo strumentista da lei adorato, il sassofonista Lester Young). Le molte osservazioni dell’autore sulle peculiarità uniche di questa voce avrebbero meritato di essere esposte con una maggiore sistematicità; e la sezione finale, che passa in rassegna quelle che Szwed identifica come le 4 fasi della carriera di Billie Holiday, non studia con l’analisi dettagliata che ci si augurerebbe il repertorio della cantante. Si tratta comunque di un buon sunto che ripercorre l’epoca della prima affermazione, quella del successo e della maggiore aderenza alle istanze di riscatto sociale, il periodo di un ripensamento legato alle trasformazioni di tutto il jazz e infine i due ultimi album orchestrali, discussi e subliminali, che Murakami Haruki definì «le incisioni del perdono».

Lady Sloga The Blues (6 giugno 1956)
Affascinante è il capitolo (forse complesso per noi, lontani dalle peculiarità dell’industria musicale statunitense, ma appunto per questo di grande interesse) La preistoria di una cantante, sui diversi modelli che il canto popular prevedeva prima che Billie entrasse in scena, trasformandoli potentemente. Vi incontriamo le coon song razzialmente offensive ma poi utilizzate sarcasticamente dagli stessi interpreti afroamericani, le maestose red hot mama (fra le quali Bessie Smith, il grande modello di Billie), le «maschiette» e ancora le appassionate torch singer, nel cui modo di cantare confluivano tradizioni europee come la chanson francese alla Mistinguett e naturalmente alla Edith Piaf, che resta la personalità più vicina a Billie Holiday. A volte Szwed pecca di approssimazione: per esempio quando, per mostrare le pressioni subite durante la carriera, sostiene che la cantante incise i suoi successi «uno straordinario numero di volte» ma conta anche le moltissime, e inevitabili, incisioni dal vivo, spesso pubblicate molti anni dopo la scomparsa della sua interprete. Ma nel complesso la sua indagine è cristallina e al tempo stesso appassionata, due qualità che convivono raramente.

Corriere della sera, 8 luglio 2018

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