29.3.19

USA. Voglia di socialismo (Massimo Maggi)

Alexandria Ocasio Campos, deputata alla Camera dei rappresentanti USA


DA NEW YORK
«Siamo una nazione fondata sulla libertà e l’indipendenza, non sulla coercizione e il controllo. Stasera rinnovo il mio impegno: l’America non sarà mai un Paese socialista: siamo nati liberi e resteremo liberi». Donald Trump ha deciso: per essere rieletto nel 2020 alla Casa Bianca punterà, come nel 2016, sul fattore fear: la paura. Stavolta alimenterà negli americani quella del socialismo. E, per dare solennità alla sua promessa, il presidente l’ha formulata davanti al Congresso di Washington e all’America intera quando, all’inizio di febbraio, ha pronunciato il discorso sullo stato dell’Unione.
Nessuna distinzione tra welfare state di tipo europeo, socialdemocrazie scandinave e soviet della defunta Urss: a lui è bastato evocare un termine, socialismo, che per la maggioranza degli americani ha sempre avuto un suono sinistro. Da allora gli slogan sul marxismo vengono ripetuti da Trump in tutti i comizi. Democratici accusati di essere liberticidi, collettivisti, gente pronta a ridurre l’America come il Venezuela. Le sue consuete forzature, certo. Ma stavolta il crescente peso dei radicali nella sinistra gli fornisce un grosso appiglio. E lui, comunque, è in linea con il Partito repubblicano che, ben prima della sua discesa in campo, aveva dipinto come socialista anche Barack Obama: crocifisso per aver proposto una riforma sanitaria che dà copertura medica anche agli esclusi, ma mantenendo un sistema di gestione della salute più privatistico di quelli europei.
Proprio lo scarso successo di quelle politiche di Obama, accompagnato dalla frattura sociale prodotta dalla Grande Recessione di dieci anni fa, ha, però, alimentato un malessere profondo, soprattutto tra i giovani. La reazione politica che ne è derivata ha rimesso in circolazione una parola — socialismo, appunto — a lungo bandita dal vocabolario politico americano. La novità è stata colta con spregiudicatezza e strumentalizzata da Trump, lesto a fiutare l’opportunità per la sua campagna. Ma la novità — la voglia di socialismo di alcuni ceti sociali — c’è: è testimoniata dai sondaggi e dallo spostamento a sinistra di quasi tutti i leader democratici più in vista. C’è anche un fermento culturale che passa per riviste come «Jacobin» e che investe la scienza economica dove spopola la nuova Mmt (sta per Modern Monetary Theory), sviluppata da alcuni studiosi post-keynesiani: i socialisti la usano per spiegare come finanzieranno i loro costosissimi programmi sociali. Ma gli economisti mainstream — compresi quelli di sinistra, come Larry Summers — la condannano senza appello: è voodoo economics.
Il termometro delle indagini demoscopiche dice (rilevazione Gallup di qualche settimana fa) che il socialismo affascina, ormai, la maggioranza dei millennial americani: il 51 per cento dei cittadini tra i 18 e i 29 anni dice di avere un’opinione positiva sul socialismo. Il fenomeno non è nuovo, ma si sta accentuando: il primo segnale venne prima delle elezioni del 2016 quando, da un sondaggio promosso dalla Harvard University, emerse un’ostilità nei confronti del capitalismo da parte del 51 per cento dei giovani di 18-29 anni. Ma allora solo il 33 per cento di loro mostrò simpatia per il socialismo.
Numeri che vanno presi con le molle per due motivi. Intanto perché le risposte cambiano molto a seconda di come vengono poste le domande. Ad esempio la proposta di introdurre una copertura sanitaria universale per tutti raccoglie circa il 70 per cento di giudizi positivi, ma se ad essa viene aggiunta l’espressione «medicina socializzata», i consensi risultano dimezzati. E, poi, le simpatie socialiste dei giovani non sono affatto condivise dagli elettori di età più avanzata (che vanno alle urne molto più dei ventenni).
Pur con tutte queste cautele, è chiaro che la perdita di incisività dei democratici e i successi della destra populista hanno cambiato lo scenario politico del mondo progressista. Determinata, giovane, abilissima nella comunicazione, la neoeletta Alexandria Ocasio-Cortez, vera rockstar del partito democratico, è il motore di questa nuova stagione: è iscritta anche al Dsa, l’«organizzazione» dei socialisti americani, propone riforme radicali e costosissime per la sanità e la tutela ambientale, vuole tassare i ricchi con un’aliquota del 70 per cento. Con la sua dialettica tellurica sta scuotendo il Partito democratico insieme a un’altra pasionaria socialista: la neodeputata di Detroit Rashida Tlaib. Gongola Bernie Sanders:«Quattro anni fa certe cose le dicevo solo io e facevano scalpore. Adesso le senti ovunque, sono patrimonio di tutta la sinistra».
Altri candidati di prima fila alla Casa Bianca, come Kamala Harris o Elizabeth Warren, non si dichiarano socialisti, ma condividono punti-chiave dell’agenda di Ocasio-Cortez: dall’introduzione di un sistema sanitario universale con un pagatore unico (lo Stato), basato su un’estensione a tutti i cittadini del Medicare, la mutua pubblica per gli anziani, all’adesione al Green New Deal. Quest’ultimo è un ambizioso (e costosissimo) piano per la tutela dell’ambiente che vuole trasformare l’economia e la vita degli americani: da una rivoluzione dei trasporti alla trasformazione di tutte le abitazioni per renderle ecocompatibili.
Alle prese con una base impaziente, che non si accontenta più dei limitati risultati «incrementali» promessi dal riformismo di Obama e dei Clinton, oggi i candidati alla Casa Bianca più in vista tra i democratici (ad eccezione di Biden) si stanno spostando più a sinistra. Mentre gli esponenti moderati, quelli ancorati a posizioni centriste, magari perché parlamentari di Stati che hanno un elettorato prevalentemente conservatore, pur essendo schierati per l’economia di mercato, faticano a dichiararsi capitalisti da quando la Ocasio-Cortez, parlando all’Sxsw, il festival delle nuove tendenze di Austin, in Texas, ha definito il capitalismo «irrecuperabile».
In questo nuovo clima politico, in attesa che a difendere le posizioni democratiche moderate sia Joe Biden, il vice di Obama alla Casa Bianca che dovrebbe ufficializzare a breve la sua candidatura per le presidenziali, la bandiera del pragmatismo dell’establishment progressista è finita nelle mani di un altro candidato alla Casa Bianca, John Hickenlooper. L’ex governatore del Colorado è il prototipo del mercatista progressista in un partito democratico Usa a suo tempo definito dal politologo Kevin Phillips «il secondo partito più entusiasta del capitalismo al mondo». Eppure, quando in un talk show gli è stato chiesto di dichiararsi capitalista, Hickenlooper si è tirato indietro, sostenendo che vanno rifiutate etichette che possono alimentare le divisioni. Ma è chiaro che pensava anche ad altro, a cominciare dal timore di essere fatto a pezzi dai social media dove spopolano Ocasio-Cortez e gli altri leader liberal.
Ma, allora, quanto è profondo il mutamento degli umori nella sinistra americana? Quanto ha inciso la rivoluzione della comunicazione digitale sulla radicalizzazione in atto? E cos’è questo «socialismo americano» abbracciato da tanti ragazzi che di marxismo sanno poco o nulla?
Il socialismo, si sa, in America non ha mai attecchito per vari motivi: dalla guerra fredda e dalla contrapposizione dell’intero Paese al blocco sovietico, all’allergia allo statalismo sempre manifestata dai pionieri e dai loro discendenti. È su questo istinto libertario che punta Trump quando proclama: «Siamo nati liberi e resteremo liberi». La differenza tra marxismo-leninismo e socialdemocrazie nordeuropee, così chiara ai nostri occhi, lo è molto meno per gli americani: soprattutto quelli che vivono lontani dalle metropoli della costa orientale — New York, Boston, la stessa Washington — più sensibili agli influssi di Oltreatlantico.
Non aiuta il fatto che negli Usa il Dsa (Democratic Socialists of America) il partito dei socialisti americani, sia, oltre che molto piccolo, su posizioni radicali e, di fatto, alleato con il (minuscolo) Partito comunista. Già in passato, anche senza richiami espliciti al socialismo, nel Partito democratico americano si era fatta strada, a tratti, una corrente favorevole a una presenza molto più estesa dello Stato in economia e a una rete di protezione sociale molto robusta, accompagnata da un’elevata tassazione. Le politiche di questo tipo vennero, però, abbandonate prima ancora dell’era reaganiana, della caduta del Muro di Berlino e della dissoluzione del blocco comunista dell’Est europeo. A pesare fu soprattutto lo choc della sconfitta di George McGovern alle elezioni presidenziali del 1972. Opposto a Richard Nixon, il candidato, alfiere della sinistra liberal, non aveva molte speranze, ma la sua fu una disfatta storica: vinse solo in Massachusetts e nella città di Washington, perdendo in tutti gli altri 49 Stati, compreso il suo, il South Dakota. Nel voto popolare ottenne appena il 37 per cento, perfino meno del 40 per cento racimolato nel 1984 da Walter Mondale nel tentativo di detronizzare Ronald Reagan.
Da allora il Partito democratico cambiò rotta scegliendo ricette meno seducenti ma più pragmatiche, solidamente ancorate all’economia di mercato. E, dopo il trionfo di Reagan negli Usa e della Thatcher in Gran Bretagna, cominciò a cercare risposte, come le sinistre europee, nella Terza Via.
I democratici si presero la loro rivincita negli anni Novanta con Bill Clinton, ma non riuscirono a fermare il declino dei ceti medi: l’aumento delle diseguaglianze continuò e divenne insostenibile dopo il crollo finanziario del 2008. Una crisi di sistema dell’era Bush, ma della quale è stato corresponsabile Clinton che nei suoi anni alla Casa Bianca assecondò la deregulation estrema di Reagan.
Malessere ed erosione dei consensi rimasero a lungo sottotraccia, fino alla svolta del 2016. Prima la sorprendente forza della candidatura del socialista Sanders, battuto a fatica da Hillary Clinton nelle primarie democratiche. Poi l’elezione di Donald Trump, interpretata dalla sinistra radicale del Partito democratico come una smentita della regola non scritta delle presidenziali americane: per arrivare alla Casa Bianca bisogna correre al centro per conquistare gli indipendenti. Trump ha vinto da posizioni estreme, sostituendo l’ideologia con il populismo. Ora i «socialisti» pensano di poter ripetere la stessa operazione da sinistra, battendo Trump con una miscela di radicalismo progressista e populismo.
La spinta è forte, così come i rischi: per Rahm Emanuel, sindaco uscente di Chicago e braccio destro di Obama alla Casa Bianca, con i richiami al socialismo i liberal americani stanno consegnando a Trump le armi per vincere di nuovo nel 2020. I democratici, poi, non devono preoccuparsi solo della presidenza: usando lo «spettro» socialista i repubblicani stanno già assediando i deputati democratici degli Stati dell’America conservatrice che hanno consentito alla sinistra di riconquistare il controllo della Camera. La cui leader, Nancy Pelosi, allo stato dell’Unione ha applaudito Trump quando il presidente ha promesso che l’America non diventerà socialista. Il rischio principale per la sinistra americana è, oggi, quello della spaccatura.

“La lettura” del “Corriere della Sera”, 24 Mar 2019

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