10.4.19

Complesso d’inferiorità? Dai “colloqui” di Sibilla Aleramo su “l'Unità” (10 aprile 1949)


Sul finire degli anni 40 del secolo scorso Sibilla Aleramo, che quasi mezzo secolo prima aveva pubblicato Una donna, considerato un testo fondamentale della scrittura e della presa di coscienza femminile nel nostro paese, tenne su “l'Unità” una rubrica di corrispondenza con i lettori. 
Posto qui il “colloquio” del 10 aprile 1949, che mi pare testimonianza significativa non solo dell'impegno civile di Sibilla nel Partito comunista, ma anche di un tempo, di una situazione: il tempo in cui all'egemonia clericale, non solo politica, che – nonostante il protagonismo femminile negli anni della guerra e della Resistenza – puntava a una restaurazione del patriarcato, si tentava di opporre, da sinistra, una volontà di emancipazione tenace, ma prudente. (S.L.L.)

Una celebre immagine di Sibilla Aleramo

Un'amica, la valorosa scrittrice Anna Garofalo, nota agli ascoltatori della Rai per le sue quindicinali Parole di una Donna, m’indirizza una cara lettera nella quale si compiace per l’inizio di questa rubrica, poi dice: “Oggi più che mai si tratta di fare appello a quella necessità di porsi problemi, a quella consapevolezza che la donna invero possiede e di cui ha dato prova in questi anni, ma di cui non sempre è cosciente, per un atavico complesso d’inferiorità. La donna manca ancora di fiducia in sé stessa, non di possibilità. Nel momento in cui si porrà un problema, lo avrà, per metà almeno, risolto. Occorre per questo liberare la donna dei lungo suo dipendere dall’altrui volontà, dall’altrui legge, dall’altrui arbitrio. Il timore vieta ogni slancio, ogni libera iniziativa”.
Così è, Anna. Soprattutto nella mostra Italia, dove la soggezione femminile ha una storia secolare, dove la donna per tanto tempo non ha osato prendere la menoma deliberazione senza prima aver il consenso del padre o del marito o del parroco o di tutti tre assieme, anche quando era certa nell'animo suo che la deliberazione fosse onesta e giusta. Situazione, fino a poco fa, deplorevole solo dal punto dì vista dell’individualità della donna, così ostacolata nella sua formazione. Ma oggi, che abbiamo il voto, oggi che la donna finalmente è «cittadina», e. responsabile al pari dell’uomo delle sorti del Paese, questa sua mancanza di libertà di giudizio e d’opinione, è, ancor più che deplorevole, colpevole e condannabile. Bisogna che le italiane, di ogni ceto, contadine e intellettuali, operaie o ricche oziose, acquistino il senso del nuovo dovere che hanno assunto (diritti e doveri, formulò Mazzini oltre un secolo fa) ed esercitino la facoltà di decidere e agire secondo la propria intima convinzione, per il maggior bene di tutti - per la pace contro la guerra, per l’educazione dei figli, e anche, anche per la loro stessa dignità di creature umane. Non sarà facile, ma è necessario.

Rosabianca, di Roma, mi pone un quesito molto grave: «Dopo alquanti tentennamenti mi sono convinta che la vostra dottrina sia la sola che, in atto, potrebbe appianare il troppo grave dislivello sociale che sempre più accentua il malcontento della classe lavoratrice e nullatenente, e far sì che si stia un po’ meglio tutti, senza posizioni privilegiate. Ora però, Sibilla cara, vorrei che tu mi indicassi come può contenersi una donna che pur volendo essere in pace con la propria coscienza, intollerante di falsità, cioè sentendo la necessità di affermare francamente le proprie idee, si trovi circondata da una schiera di congiunti acerrimi avversari dell’idea socialista, e accanto a un marito anch’egli ostile. Tacere le proprie convinzioni per amor di pace si può qualche volta, ma si potrà poi sempre? D’altronde immagini tu la guerra che potrebbe scatenarsi in famiglia e quale nuovo contrasto nascere nei rapporti fra me e mio marito? Sibilla mia, di cui ammiro tanto i libri, tenta di penetrare nel mio animo anche se poco ti so spiegare a parole, e dimmi quale contegno credi sia più appropriato al mio caso».
Sì, il quesito è grave. E non è soltanto di Rosabianca, ma di migliaia e migliaia di donne della piccola e anche della grande borghesia: figlie e mogli di funzionari, di industriali, di agrari, di grossi commercianti... Che cosa rispondere? Anzitutto, bisogna che Rosabianca si persuade che è nella propria coscienza che il problema va dibattuto, con coraggiosa tenacia, e risolto. Quando un’Idea è penetrata in noi saldamente, dopo attendo e profondo esame, essa ci illumina e ci guida anche per i nostri rapporti con tutto il resto dei viventi, dal prossimi al lontani, dai famigliari ai cosiddetti estranei (ma nessuno costituisce un estraneo dinanzi una coscienza socialista). Certo è che occorre poi, caso per caso, agire con molta delicatezza per condurre gli altri al punto cui noi siamo giunti; cercando di far compiere ad essi il cammino da noi percorso, di far loro avere quelle che son state le nostre esperienze decisive (incontri con libri, con persone, con avvenimenti, ma quasi inavvertitamente, poco a poco, di modo che essi abbiano il senso di scoprire via via da soli, per virtù spontanea, la verità. Nella convivenza, ogni giorno, non con dichiarazioni, diciamo così, polemiche, ma con il nostro comportamento, anche di fronte ai fatti più modesti, mostrando lealmente, senza iattanza né acrimonia, il nostro sentimento su questo o quel fenomeno sociale, su ingiustizie piccole o grandi, sulle miserie materiali o morali che purtroppo tutti incontriamo ad ogni passo, quale azione continua, se pur pervasa di pazienza, possiamo compiere sullo spirito di chi vi sta accanto? Specialmente, cara Rosablanca, se chi vi sta accanto è tratto silenziosamente a constatare come il nostro nuovo modo di vedere il volto e i1 destino del mondo ci abbia migliorate e sempre più ci migliori, ci abbia rese più umane, più vive, nel senso alto della parola, come certo tu sei dacché hai compreso tante cose. È così, Rosabianca?

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