6.4.19

Daniel De Foe. Il colonnello Jack, o le avventurose storie della moneta (Franco Miracco)

Risale a più di 35 anni l'articolo qui postato, quando – sia pure per vezzo – Defoe si scriveva anche De Foe e Franco Miracco scriveva ancora sul “manifesto” non solo di belle arti, ma anche di letteratura e di cucina. (S.L.L.)

Daniel Defoe ( o De Foe)
Ho iniziato a leggerlo in treno e ad un certo momento, sotto le prime cento pagine, all’altezza di un prato dove pascolavano i bufali, di scatto mi sono sentito mentre controllavo se il mio portafoglio fosse ancora al suo posto. Sì, Le avventure del colonnello Jack ovvero The history of the life and adventures of colonel Jack di Daniel De Foe si aprono con una turbine di portafogli rubati, di sconvenienti passaggi di mano, di cacce ostinate e di fughe selvagge; insomma, di tutto il necessario per un veleggiare disonesto verso cambiali di oreficeria, assicurazioni, gioielli, sterline. Fin da subito, cioè dall’infanzia, il motivo dominante, vera categoria del propagarsi del furto, è il furto — la difesa del furto — il successo o lo scacco, e in questo caso: tortura, forca, oppure prigione e schiavitù. L’erudizione di questo universale e pietrificato «stare insieme» di gentiluomini e ladri, di mercanti e pirati, si muove lentamente ma inesorabilmente lungo un bipolarismo economico provveduto soltanto dal denaro, dalla moneta in quanto tale, che si ha o non si ha, e l’accentuazione degli stati d’animo o delle delicatezze psicologiche, compresi i pentimenti, non appartengono che a quell'incessante dondolio monetario: da me a te e viceversa.
E questo fiume di denaro, di sterline, di scellini, scorre passando alla «nostra avventura successiva», correndo per le strade di Londra, uscendo da una bottega rimanendo in una tasca o in una borsa non più di un attimo, transitando da una taverna ad un mercato, cadendo da un tavolo in chissà cosa, gonfiando per un giorno un vestito elegante o un lurido berretto. Così, nascosto negli stracci, infilato nel tronco di un albero, portato ovunque, da una mano all'altra, sottratto a questo e a quello, lasciato andar via da Lombard Street fino ad un prato (oltre la periferia, ma è già periferia?); ogni elemento di quel fiume, nell’ordine del denaro, s’intende, seguita a correre soltanto dal primo (vero?) padrone al nuovo (vero?) padrone, dal ladro all’apprendista, tra la notte e le lacrime, tra una gioia folle e spaventi terribili, comunque, sempre in mezzo alla strada, per la strada, fino a quel prato dove si fanno i conti.
Il colonnello Jack, già dal primo rigo, mette all'origine della propria storia il fatto «che la mia vita è stato un campo di gioco per la natura» e, davvero, la realtà del giovanissimo ladro sembra coincidere totalmente con gli scopi della pallina nel flipper: ottenere il maggior numero di punti, conservarsi in movimento, crescere lungo i tracciati del «campo di gioco», adempiere ai soli comandi o impulsi del gioco, intendere il medesimo quasi in relazione al metodo del cronista («sapevo dare un resoconto discreto di quello che era successo») o al suo personale patrimonio di buona e di cattiva fortuna.
D’altra parte, se è «un campo di gioco», non possiamo che vedere all’opera la fortuna ed è nella sfera di questa parola, detta e ridetta, che si fanno le prime esperienze.
Ma la stessa città di Londra è un flipper e il gioco del ladro, che è poi quello del guadagno, si manifesta in una sicura conoscenza della città, di giorno e di notte, da un punto all’altro: «...e via di gran carriera, e io dietro tutto d’un fiato, senza neanche guardarci alle spalle, nientemeno fino a Fenchurch Street, poi su per Lime Street, fino a Leadenhall Street, e lungo St Mary Axe fino al muro di Londra, poi attraverso Bi-shopsgate é giù per Old Bedlam finché fummo a Moorfields».
Ma la fuga non è finita, la corsa riprende: «E così mi tirò per Long Alley e Cross Hog Lane e Holloway Lane fino in mezzo al prato grande che poi fu chiamato il campo della Farthing Piehouse. Volevamo sederci lì, ma era tutto pieno d’acqua, sicché andammo oltre attraversando la strada a Anniseed Cleer ed entrammo nel prato dove ora è il grande ospedale. Trovato un posto solitario, ci sedemmo ed egli tirò fuori la borsa».
Dunque, globo, denaro, fortuna, fuga, le funzioni di scorrimento veloce delle strade inscindibili dallo scorrimento altrettanto veloce del denaro, anche perché tutto il resto appare estraneo a queste spinte fondamentali, sembrano quasi essere il processo di estensione della città, il suo stesso giustificarsi, oppure il suo trasmettersi nella vita del ladro in quanto vera struttura di un movimento primario, cioè quello dello «scambio» monetario. Incredibile: nel prato si fanno i conti, ma quel prato è provvisorio, precario, anch’esso si trasformerà, si sta trasformando in città e, quindi, in opportune occasioni per Jack e i suoi fratelli, che andranno a verificare il guadagno in un altro prato e così di nuovo, ancora... È un fuoco questo, che si suscita in qualunque punto della città. I suoi spostamenti sono frequentissimi, interagisce con altri fuochi, simili a lui o diversi da lui per qualità di assorbimento e orientamento, e qualsiasi istante è buono per far passare di mano il fuoco, laddove ve ne siano le condizioni. Il fuoco può essere posto dappertutto e l’incendio può avvenire in qualsiasi posto e a provocarlo può essere chiunque. Ladro e derubato procedono verso bordi diversi, stanno su parti opposte, ma la barca è la stessa.
Il percorso di De Foe, in ogni pagina di questo libro, non si separa mai da una assoluta dualità, dalla complementarietà dei duellanti, del pirata con il mercante, dello schiavo con il padrone, del bianco con il negro, della donna con l’uomo. Senza «i duellanti», nulla avrebbe più senso e pertanto, ogni cosa si realizza nella simmetria, muovendo da situazioni ampiamente determinate, da condizioni identiche, secondo raggruppamenti simbolici, lungo piani, appunto, di generalizzazione.
Infatti, i Jack, che tali non sono all’inizio, diventano tre, sono tre. Dice il futuro colonello: «...così non mi restò che chiamarmi signor Chiunque, cioè come meglio mi piaceva e come il tempo e la mia sorte mi avrebbero dato occasione di scegliere». Più chiaro di così: Chiunque-Jack. Simmetria, pendolo, oscillazioni e le oscillazioni si fanno sempre più estese, e a partire da Londra: il viaggio labirintico verso la Scozia, ma poi l’inganno e l’attraversata dell’oceano, il salto in Virginia, la schiavitù, il riscatto, la fortuna, le navi, il ritorno, il continente europeo, persino le guerre in Italia, nel 1701 con il principe Eugenio di Savoia, e via con i duelli, i matrimoni, uno dopo l’altro come i divorzi o le morti, le sconfitte contrattuali-sentimentali, di nuovo l’Atlantico, le Indie occidentali, Cuba e il Messico, la piantagione americana, l’ultimo matrimonio (il quinto, cioè ci si risposa con la prima donna), e dopo, ancora altri rischi, nuovi pentimenti, dalla religione alla politica. Ma ecco l’ultima tappa: Londra.
Il teorema di De Foe ha una dimensione planetaria proprio perché ha una logica da teorema e quindi può sostenere qualunque collegamento, qualunque incontro. Ma queste storie d’amore e di locanda, di guerre e di tesori, di sfortune sentimentali e di spietate risalite (la fortuna?) sia sociali che psicologiche, sono emesse da un occhio atlantico. Se «la verità sta in fondo all’abisso», l’abisso è essenzialmente occidentale.
Elementi del teorema: c’è sempre un «prato» in cui si cade o si fa sosta, ma da cui si riparte. Conclusione e ripresa: la Scozia, una nave, la Virginia, un incontro, un'ostessa, un sorso di rum, una parola, compresa la morte. C’è addirittura, il momento estremo della condizione del «prato», quando si precipita nella condizione di schiavo e, a quel punto, scompare persino il denaro, ciò che conta è il tuo stesso corpo, vali per quello che sei, in assoluto. Ed è da questa spietata nudità, da questa fisicità senza alcuna altra storia, da questa animalità senza filosofia, che non sia quella del rapporto schiavo-padrone, che si può e si deve ripartire.
Daniel De Foe raccontò tutto nell’arco «di quegli straordinari sei anni» (1719-1724) come li chiamò Cesare Pavese, che, esattamente trent’anni fa, in prefazione al Moll Flanders scrisse che De Foe ebbe una vita «provata da persecuzioni, incarceramenti, estenuanti fatiche a tavolino, e soprattutto miseria». Paolo Amalfitano, che ha curato questa edizione delle avventure del colonnello Jack, ricorda che il libro fu «pubblicato nel 1722, nello stesso anno di Moll Flanders, di A Journal of the plague year, di Religious Courtship».
In De Foe tutti gli affari sono detti fin dal principio o quasi. Quella che è stata la formula di una vita viene confessata, dichiarata in parterza, è spesso, riassunta nei primi capitoli. In definitiva, non possono esserci impensabili novità, digressioni, capovolgimenti di fini e di mezzi, perché tanto, una volta finita la battaglia «monetaria», ciò che è stato raccontato non è nient’altro che il racconto di una moneta. Pertanto, ci sono monete che si perdono e monete che si salvano, monete false e monete di valore, ecc. In breve, si sa com’è una moneta o no?
L’edizione napoletana si avvale della traduzione di Nemi D’Agostino e del saggio introduttivo La scrittura di Daniel De Foe, di Paolo Amalfitano, particolarmente interessante per la capacità dì stabilire la ricchezza e la novità dei motivi aperti dall’opera del grande scrittore inglese.

“il manifesto”, 6 luglio 1984

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