14.5.19

Da Piana dei Greci a Harvard. L'esilio americano di Giorgio La Piana (Filomena Fantarella)


In pochi, forse in pochissimi, sanno chi sia stato Giorgio La Piana. È lo stesso Francesco Torchiani, autore del libro a lui dedicato (L’Oltretevere da Oltreoceano. L’esilio americano di Giorgio La Piana, Donzelli, Roma 2015), ad ammettere nella sua introduzione che molti avrebbero avuto difficoltà a riconoscere l’ex sacerdote siciliano “in quel gentleman perfettamente a suo agio tra i membri del corpo accademico” di Harvard.
La biografia di Torchiani ha così il merito di riempire un vuoto ricostruendone meticolosamente la vicenda, e non senza piglio critico.
Nato nel 1878, nel paesino di Piana dei Greci, La Piana compì i primi studi nel seminario di Monreale e nel 1900 vestì l’abito talare, che però “macchiò” quasi subito di simpatie moderniste. Anche La Piana non fu immune da quella crisi religiosa e spirituale che scosse il mondo cattolico già dalla fine dell’Ottocento, nell’intento di conciliare con la fede il mondo moderno e la scienza. La “peste modernista” (così il vituperio di Pio X nella Pascendi del 1907), che voleva applicare il metodo critico anche alla lettura dei testi sacri, minacciava la chiesa su due fronti: quello sociale, con la sua “secolarizzazione rivoluzionaria”, che andava ad insidiare “il disegno di società perfetta e immutabile di cui la chiesa era custode”; e quello dello studio dei testi sacri, che si voleva sottoporre al vaglio della ragione. È evidente che, a fronte di queste rocciose chiusure dell’ufficialità cattolica, non vi era spazio alcuno per chi – come La Piana – affrontava i temi della chiesa con spirito critico.
Fu così che nel 1913 La Piana si imbarcò per l’America, dove raggiunse i fratelli in Wisconsin. Dopo un periodo trascorso nella città di Milwaukee, si trasferì a Cambridge, nel Massachusetts, e lì ottenne una cattedra alla Harvard Divinity School. Qui divenne subito docente stimato e temutissimo, tanto che George Mosse ricordò che proprio La Piana gli aveva fatto passare “i peggiori minuti” della sua vita, durante l’esame di ammissione al dottorato in storia. A Cambrige La Piana divenne il punto di riferimento degli esuli antifascisti e, primo fra tutti, di Gaetano Salvemini, che così scrisse di lui: “La sua influenza su di me è stata enorme. Perché è un uomo di grande buon senso e perfetto equilibrio morale. Ha sempre funzionato su di me come ‘stabilizzatore.’ Sono d’accordo su tutte le sue idee fondamentali per la vita morale, scientifica e politica. Ma io sono un impulsivo. Lui è quieto e meditativo”. Una consonanza di idee che fu suggellata nel 1943 con un lavoro scritto a quattro mani: What to do with Italy? Uno scritto importantissimo, che individuava tra le cause del fascismo proprio l’incrocio incestuoso tra lo stato e la chiesa.
E che inoltre martellava sulla incompatibilità tra la democrazia moderna e la chiesa quale unica detentrice della verità. Tema questo che dominerà le riflessioni di La Piana anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, ancora una volta in piena concordanza con Salvemini, che sosteneva le stesse tesi dall’Italia, dove era ritornato alla fine del conflitto. Il lavoro di Torchiani è importante anche per questo: perché propone al lettore riflessioni ancora estremamente attuali sull’eterno conflitto tra stato e chiesa.

"L'Indice", Aprile 2016

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