21.5.19

Gli ultimi 10 anni di Sartre esposti al pubblico. “La cerimonia” di Simone de Beauvoir (Sandra Teroni Menzella)


Una recensione del 1982, scritta da una francesista a quel tempo assai giovane ma già molto agguerrita, Sandra Teroni Menzella (oggi solo Sandra Teroni); una lettura a caldo tutt'altro che indulgente. Forse anche una chiave per rileggere il libro di Simone de Beauvoir di cui si ragiona: ho il sospetto che il fascino di quel libro, oggi, abbia un nesso con l'aggressività malamente mascherata dell'autrice contro Jean-Paul Sartre, con cui aveva a lungo fatto coppia. (S.L.L.)

Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre

Sartre e Simone: la coppia si rompe perché uno dei termini viene a mancare, lui muore. Lei la ricompone nell’immaginario e la oggettiva in un libro. Un nome d’autore: Simone de Beauvoir, un titolo letterario: La cérémonie des adieux, un editore di prestigio (anzi, la «maison» per eccellenza): Gallimard, la solidità rassicurante di 560 pagine. È il libro che ha lasciato senza fiato chiunque l’abbia avuto tra le mani, scatenando l’indignazione di chi ha sempre sospettato che la Beauvoir oltre che una cattiva scrittrice fosse una persona terribilmente invadente, e mettendo in imbarazzo i suoi amici, chi l’ammira e le vuole bene.
Il volume è doppio: in una parte (del 1974) Sartre vi parla interrogato da Simone; nell’altra (del 1980) è oggetto del racconto di lei. L’ordine di presentazione è rovesciato: il Sartre assente, quello visto dallo sguardo di Simone, introduce al Sartre da cui è sollecitata e a cui è data la parola. La fissità del ritratto, che si impone pur nella progressione cronologica (il racconto copre gli ultimi dieci anni della vita di lui) si scioglie nella fluidità della conversazione. Ma non è facile arrivare alle pagine in cui Sartre e Simone discutono intorno a un magnetofono, sulla terrazza di un albergo romano durante l’estate e in autunno a Parigi. Per arrivarci bisogna passare attraverso 150 pagine che hanno la pesantezza di una pietra sepolcrale, rimossa per svelare una lunga, penosa fine.
La coppia ricostruita dal racconto della Beauvoir, lontana dall’immagine armonica che se ne poteva avere, esaspera lo squilibrio tra i due termini: non quello del vissuto, bensì quello — altrettanto reale — del momento della scrittura: c’è un soggetto che parla e un oggetto parlato, il quale deve la sua esistenza di oggetto immaginario, di terza persona — quella di cui si parla — a un’assenza che il lettore sa essere definitiva, la morte. Questo dato, che origina la scrittura, ipoteca la lettura e impronta la scrittura stessa.
Di Sartre la Beauvoir aveva già parlato: nella sua autobiografia egli è presente fin dai primi fuggevoli incontri all’École Normale, prima che lei diventasse il «Castor». Ma non ne aveva mai raccontato la storia, anzi a partire da L’età forte (1960) aveva esplicitamente annunciato silenzi e riserbo: «La mia vita è stata strettamente legata a quella di Jean-Paul Sartre; ma la sua storia ha intenzione di raccontarla lui stesso, e lascio a lui questa cura». Qualche anno dopo usciva infatti Le parole, dove Sartre raccontava a modo suo la sua storia: in duecento pagine parlava di sé, del suo rapporto con la letteratura, col mondo, con gli altri, mettendo insieme pochi brandelli di in passato contenuto nei primi undici anni di zita. Poi, qualche aneddoto nelle conversazioni con Pierre Victor e Philippe Gavi (Ribellarsi è giusto) e nelle interviste. Per il resto, silenzio. In maniera meno limpida e coerente che nel passato, la scelta di tacere sul proprio privato veniva confermata anche nel famoso Autoritratto per i settant’anni, l’intelligente intervista raccolta da Michel Contat nel 1975. In quanto a Simone, quando, passata la soglia lei sessant’anni, consegnò ai suoi lettori A conti fatti, le memorie del decennio ’60, il tracizionale «prologo» si apriva con un’osservazione sulla «sorta di cannibalismo» di quei critici e lettori che le avevano rimproverato di aver parlato poco della propria vecchiezza nel saggio omonimo. È vero che l’impressione di essere richiesta in pasto non le impediva di proseguire il racconto autobiografico, anzi finiva con lo stimolarlo; questo tuttavia era improntato alla massima riservatezza. La propria vecchiezza era tenuta al riparo da sguardi indiscreti, protetta dallo schermo delle cose fatte; i libri scritti e quelli letti, i film visti, i viaggi, gli amici, fino ai sogni accuratamente datati. Come, del resto, sempre, era stato al riparo il corpo, detto vivace ed esigente, ma mai mostrato. E così l’amore, il sesso, l’incontro dei corpi, il desiderio, il piacere, la frustrazione, il rifiuto.
Finché la morte di Sartre apre lo spazio al racconto di una vecchiezza, alla messa in campo di un corpo: non la propria vecchiezza e il proprio corpo, quelli di lui. Simone si riconferma nel suo ruolo di «testimone», scegliendo di passare sotto silenzio il proprio vissuto (che permeava invece il racconto della morte della madre, Una morte dolcissima), per dire, descrivendo.
Il racconto, si è detto, abbraccia gli ultimi dieci anni delia vita di Sartre, scanditi nella loro successione cronologica come in una cronaca; nel ’70 Sartre aveva 65 anni: questa data diventa il momento iniziale e ufficiale della sua vecchiezza. Che è decadimento, decomposizione fisica: la circolazione si inceppa, parti-celle del cervello non funzionano più, i denti se ne vanno, la perdita della vista, la mano non ha più forza né capacità di presa, la bocca si torce, le gambe non tengono, la parola impastata, l’incontinenza urinaria... È «irreversibile degradazione»; vuoti mentali, assenze, sonnolenze, ostinata dipendenza dall’alcool e dal fumo, capricci, regressioni, ebeti ripetizioni... Con ritmo ossessivo, il racconto reiterato dei sintomi mese per mese crea l’effetto di un crescendo fino al quadro dell’ultima ospedalizzazione, con il corpo piagato, il blocco urinario, i sacchetti di plastica appesi, la cancrena.
Toglie dunque il fiato, questo racconto — anzi, resoconto - che si vuole cosi neutro e affettuoso (è rivolto agli amici di Sartre, quelli che vogliono conoscere meglio i suoi ultimi anni), per l’aggressività che fa trasparire e, soprattutto, agisce. L’altro è spogliato, messo a nudo e offerto al pubblico nelle debolezze e nelle miserie fisiche, quelle che con cura si nascondono a sguardi estranei e con cui a fatica, quando si è costretti, ci si misura. A coloro che «vogliono conoscere meglio» gli ultimi anni di Sartre, la Beauvoir offre il ritratto di un uomo rimbambito e il racconto di un rapporto umiliante, in cui l’uomo rimbambito è trattato appunto come un bambino o un idiota, sorvegliato, sgridato, imbrogliato, umiliato. Ridotto a oggetto dallo sguardo dell’altro vincente perché ne sa più di lui, ed è più forte. Situazione da Huis clos: «l’enfer c’est les autres».
Il racconto e la descrizione sono orientati da un confronto col «prima», con l’intelligenza, la presenza, l’appassionata volontà e capacità di lavorare, la vivacità del Sartre sano, del Sartre «vero». E dal confronto con le proprie aspettative, con l’immagine accettata dell’altro. Quella che sempre più si delinea dal ’70 è la macabra caricatura di Sartre, la sua immagine degradata, «déchue», non un invecchiamento assunto come tale, seguito e capito dall’interno. «Evidentemente egli soffriva di un’inquietudine diffusa rispetto al suo corpo, alla sua età, alla morte», leggiamo; ma di questa inquietudine non ci è detto nulla, nessun tentativo di comprensione empatica (Sartre con Flaubert): l’inquietudine è solo ipotizzata, mentre prolifera la descrizione delle manifestazioni del decadimento. Certo, non si può vivere l’altro dall’interno. Si può dirlo, però. E, soprattutto, si può tacere.
Ma Simone vuole testimoniare, far luce sugli ultimi anni di Sartre, sul post-’68 in sostanza, gli anni del suo avvicinamento ai «mao» e delle sue discutibili prese di posizione politiche, dal terrorismo alle questioni arabo -israeliane. Chiarendo ciò che si mormorava in giro sulle rotture con la vecchia équipe dei “Temps Modernes” e sulla parte giocata da Pierre Victor-Benny Lévy, mostrando in che stato fisico e mentale Sartre fosse ridotto, collocando il suo attaccamento all’ex-leader della Gauche prolétarienne in un bisogno di esorcizzare la morte, suggerendo che questi lo manipolava facilmente e lo spingeva a «rinnegare il suo pensiero». E in questo è chiaro un tentativo di recuperare Sartre a se stesso, o almeno di sottrarlo a una strumentalizzazione che può durare oltre la sua morte da parte di chi se ne sente l’erede spirituale.
Ma la testimonianza non realizza soltanto gli intenti; come si è visto, lascia passare ben altro. E con la sua forma stessa di testimonianza, dice ancora altro. Perché con la scelta di quest’ordine di discorso, che deliberatamente esclude non solo la scrittura letteraria ma anche la rielaborazione, la Beauvoir compie al tempo stesso un atto — interviene sulle polemiche post-mortem, ma già iniziate almeno negli ultimi cinque anni — e un agito: agisce la separazione. «Alors, c’est la cérémonie des adieux» avrebbe detto Sartre un giorno di fronte, alle sue difficoltà di separazione. Nel riferirlo, Simone riflette sul senso della parola «addio», già carica di presagi in quell’estate del 71. Non sembra invece prestare attenzione all’altro termine né all’espressione completa e — certo per un affettuoso omaggio a Sartre — ne fa il titolo del suo libro. Come nel non detto dell’episodio riferito, separarsi richiede una serie di precauzioni, e un atto prolungato che acquista l’importanza e l’ufficialità di una cerimonia che per essere ha bisogno di entrare in forme e formule ripetute e sacralizzate.
La cerimonia degli addii si prolunga oltre il narrato e comprende la narrazione stessa.
Letterario, il titolo si rivela anche crudele: le 150 pagine che seguono e sostengono l’intero volume sono un atto di questa cerimonia, del processo di separazione attraverso l’oggettivazione (messa in parole, resoconto, verità ed esattezza), la presa di distanze, lo svelamento pubblico del segreto. La perdita viene agita consegnando agli altri — differenziati e non — la lunga perdita che ha accompagnato la trasformazione finale di lui e la sua lenta morte.
Passando dal dialogo privato (impedito dalla morte ma già disturbato dalla malattia) alla storia del privato di lui per spiegarne le trasformazioni della figura pubblica. Recuperando e ricongiungendo distanza di età e di identità: Simone che scrive ha superato i 70 anni e lucidamente racconta, mette in prospettiva e interpreta il decadimento di Sartre a partire dai 65 anni, il diverso modo di far fronte alla vecchiaia; mentre rivela le miserie della vecchiezza dell’altro, mostra una vecchiezza — la sua — senza miserie né decadimenti.
Rossanda, scrivendo su “Orsa minore” (numeri 3/4) ci mostra il volto di Simone eccezionalmente bagnato di lacrime parlando di Sartre. Certo che le lacrime ci sono, come il corpo e la vecchiezza, ma fuori dal libro. In un’intimità che né il racconto né la scrittura tradiscono.

“il manifesto”, domenica 28 febbraio 1982

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