26.6.19

Meno cultura, meno eguaglianza. L'università massacrata dalle riforme (Roberto Monicchia)


Articolo-recensione di tre anni fa, ma tuttora utilissimo a comprendere le origini e gli sviluppi di un degrado sempre più evidente, (S.L.L.)

Università di Pisa. La Camera delle Meraviglie nel Museo di Storia Naturale
Perché un luogo di trasmissione della conoscenza è diventato uno straordinario concentrato di stupidità in cui l'automazione frenetica delle pratiche svuota il significato delle azioni quotidiane?” Muovendo da questo interrogativo, attraverso un racconto che spazia dal diario alla satira al pamphlet, il filologo e storico della letteratura Federico Bertoni delinea un quadro chiaro e convincente del vicolo cieco in cui decenni di riforme hanno cacciato l'università italiana (Universitaly. La cultura in scatola, Laterza, Roma-Bari 2016). Di più: la presunta separatezza del mondo dell'accademia appare a ben vedere una specie di illusione ottica: invece che una torre eburnea l'università si rivela di più come uno specchio che riflette dinamiche generali, a cominciare dalla sanzione delle diseguaglianze come qualcosa di inevitabile e naturale.
Il discorso prende il via dal racconto della giornata tipo del professore universitario, che conferma l'ossessiva presenza dell'amministrazione nella vita dell'individuo moderno: nello specifico si tratta di richieste di validazioni, partecipazione a peer review (revisioni tra pari), produzione di abstract in inglese dei propri “prodotti scientifici”. Caratteristica comune del sistema di valutazione di impronta anglosassone, adottato dall'università italiana, è il tentativo di formalizzare e quantificare il complesso lavoro di ricerca e didattica che - nonostante tutto - nelle università si continua a fare. Alla crisi dei paradigmi epistemologici, i sistemi scolastici e universitari reagiscono con una farsesca pretesa di oggettività. Non è in gioco solo lo spaesamento del docente che non ritrova in questi metodi di valutazione la sostanza del suo effettivo lavoro quotidiano, né si tratta di un semplice errore di approccio scientifico: il sistema di valutazione formalizzato, sorta di neopositivismo volgare dominante, ha il potere di “colonizzare l'organizzazione e gestione della ricerca”, orientando la gerarchia dei finanziamenti alle diverse università e facoltà, legittimando tagli e aumenti di tasse, guidando, in una parola, la mutazione genetica in atto nel sistema accademico italiano.
Il meccanismo è tanto potente da autoriprodursi come “microfisica del potere”: molti docenti diventano esecutori di una massa pulviscolare di funzioni amministrative, moltiplicando così la logica di autoriproduzione e indifferenza ai fini propria di ogni struttura burocratica.
Bertoni, che sottolinea la propria estraneità (anagrafica e politica) all'università del passato, rinviene il punto di partenza della trasformazione nella riforma Berlinguer del 1999, alla base della quale vi era la condivisibile volontà di affrontare problemi storici del sistema accademico italiano: il basso numero di laureati e quello troppo alto di fuori corso, la vetusta disposizione dei curricoli. Ma la nuova organizzazione (il 3+2, i crediti, la classificazione delle discipline tra “base”, “caratterizzanti”, “affini e integrative”) è stata mal disegnata e soprattutto pessimamente applicata, producendo un'irrazionale proliferazione di sedi e corsi che giustificherà i successivi tagli indiscriminati. All'interno delle facoltà si evidenzia una lotta al coltello per il riconoscimento di più crediti o l'accesso alle discipline “caratterizzanti”; un meccanismo che non intacca, anzi rafforza le tradizionali cordate di potere, mentre svalorizza tanto la ricerca quanto la didattica.
La logica che presiede al 3+2 ha due errori di base: uno teorico, consistente nella malintesa idea di professionalità, per cui occorre liberare l'università da una base teorica, vissuta come una zavorra; l'altro “psicologico”, per cui la maggior parte dei docenti usano la nuova organizzazione come strumento di separazione tra una base larga da trattare come “mandria” e un'élite da cui ricavare il meglio. In questo modo l'università torna ad essere un meccanismo che conferma e allarga privilegi e diseguaglianze. È una logica che si diffonde come “senso comune”, alimentando la frenetica corsa a “riformare la riforma”. Caratteristica comune, indipendente dagli orientamenti politici dei governi, delle leggi successive è l'applicazione “senza nuovi oneri”: così la politica dei tagli viene sistematizzata, aumentando ancor di più la distanza tra atenei, e tra indirizzi di studio.
Più in generale, e fatte salve le contraddizioni e le resistenze, l'università italiana si sta incamminando verso il modello già sperimentato negli Usa, e descritto da Bill Readings nel 1996. Il modello classico humboldtiano di istruzione superiore, che coniugava ricerca e didattica, è sostituito da una consumer oriented corporation, con gli studenti ridotti a clienti e i docenti a burocrati, mentre il potere si concentra nelle mani di rettori-tecnocrati. Alla centralità (e complessità) della crescita culturale si sostituisce l'idea senza contenuto dell'“eccellenza”, del tutto conforme ai canoni del capitalismo neoliberista. Nel caso italiano, dietro il mito della “internazionalizzazione” e del confronto con le università di tutto il mondo, lo scenario che si prepara prevede pochi atenei “di eccellenza” concentrati al nord, circondati da una massa di “liceoni” dequalificati, privi di risorse né prospettive.
Se questa abdicazione al ruolo costituzionale democratico dell'istruzione universitaria è la posta in gioco della trasformazione, c'è da chiedersi come mai il processo incontri una resistenza tutto sommato blanda, sia dal punto di vista sociale, sia da parte di chi nell'università vive e opera. Per rispondere a questa domanda Bertoni usa gli strumenti della critica letteraria e dell'analisi linguistica, risalendo al meccanismo che - analogamente a quanto avviene per i sistemi economici - costruisce un paradigma interpretativo semplificato, una “narrazione che formatta la realtà” adeguandola all'ideologia dominante. Nel caso specifico l'esempio è il trattamento mediatico della riforma Gelmini (2010): all'immagine della volontà modernizzatrice della ministra si contrapponeva una massa di baroni che difendevano i loro atavici privilegi. Gli oppositori venivano inchiodati a questa immagine, anche quando indicavano dati precisi, come la realtà dell'Italia che diminuiva le spese per l'istruzione, pur essendo l'ultimo paese Ocse da questo punto di vista.
Nella realtà, lungi dall'aver “tagliato le unghie” ai baroni, la riforma ne ha rafforzato il potere, affidando le commissioni di concorso ai soli ordinari e all'Anvur, organismo di diretta nomina politica, l'intera valutazione, da cui dipendono le selte di finanziamento dei diversi atenei.
Più in generale il meccanismo di mistificazione ideologica attraverso la “narrazione” si costruisce attorno a tre parole chiave: il merito, l'eccellenza e la valutazione.
Dietro la retorica del merito, ribadita senza differenze da Berlusconi a Renzi, si nasconde l'accettazione delle differenze sociali e culturali di partenza, ovvero una pesante restaurazione antiegualitaria. Anche l'eccellenza, che già come termine richiama l'ancièn régime, rimanda ad una trasformazione di finalità di un'istituzione chiusa in se stessa che risponde solo a stakeholders e finanziatori. Chiude il cerchio la “mistica” della valutazione, che assolve ad un duplice compito: ridurre la complessa attività di giudizio ad una classificazione quantitativa, facendone poi la base presunta “oggettiva” per distribuire le (declinanti) risorse agli atenei.

“micropolis” luglio 2016

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