5.6.19

Non si sa cosa porti la sera. La cena perfetta secondo Varrone (Aulo Gellio, Notti Attiche, XII, 11, 1-7)



Marco Varrone sul numero di convitati più giusto e conveniente; e sulle portate di fine pasto (i “bellaria”)

Nelle Satire Menippee di Marco Varrone c'è un libro delizioso che si intitola Non si sa cosa porti la sera, in cui l'autore discorre sul numero giusto dei commensali e sulla preparazione e l'eleganza del convito. Secondo lui il numero dei convitati dovrebbe cominciare dal numero delle Grazie e arrivare a quello delle Muse, insomma che parta da tre per fermarsi a nove, di modo che, quando siano molto pochi, non siano comunque meno di tre e, quando sono moltissimi, non siano più di nove. “Non conviene – egli dice – essere in molti perché il più delle volte la turba è turbolenta: a Roma sta in piedi, ad Atene sta seduta, ma in nessun luogo può stare comodamente sdraiata come dovrebbe. Quanto alla cena in sé, a prescindere dal numero dei partecipanti, la sua riuscita si basa su quattro requisiti: la scelta di persone eleganti, il luogo ben scelto, l'ora convenientemente fissata, la preparazione non trascurata. Gli invitati non devono essere né ciarlieri né taciturni, perché se l'eloquenza è al suo posto nel foro o in tribunale, il silenzio è adatto alla camera da letto non alla sala da pranzo”. Varrone pensa che per l'occasione non si debba fare conversazione su argomenti angosciosi o complicati, ma parlare di cose allegre e gradevoli, utili sì ma con una qualche attrattiva e piacevolezza, dalle quali la nostra intelligenza sia resa più bella e gioiosa. “Di certo l'obiettivo – egli dice - si realizzerà se ragioneremo di quel genere di cose che riguardano la normale vita di ognuno e per le quali nel foro e nelle attività pratiche non c'è mai spazio. Non è necessario che il padrone di casa faccia il sontuoso – aggiunge – ma dev'essere senza grettezza”. E ancora: “Durante la cena non si può leggere di tutto, ma soprattutto quello che sia piacevole e utile alla vita”.
Anche per le seconde (e ultime) portate Varrone indica come è bene che siano. Usa queste parole: “I bellaria più dolci sono quelli che non sono dolci; i dessert vanno poco d'accordo con la digestione”.
Per evitare che qualcuno si trovi in imbarazzo per il termine bellaria, usato da Varrone, si sappia che esso indica qualsiasi tipo di “seconda mensa”. Il nostri antenati chiamavano bellaria quelle pietanze che i Greci chiamavano pémmata o tragémata. Anche i vini dolci facevano parte della categoria, come si può ricavare dalle commedie più antiche ove venivano chiamati “i bellaria di Bacco”.
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XI. Quem M. Varro aptum iustumque esse numerum convivarum existimarit; ac de mensis secundis et de bellariis.

I. Lepidissimus liber est M. Varronis ex satiris Menippeis, qui inscribitur: nescis, quid vesper serus vehat, in quo disserit de apto convivarum numero deque ipsius convivii habitu cultuque. II. Dicit autem convivarum numerum incipere oportere a Gratiarum numero et progredi ad Musarum, ut, cum paucissimi convivae sunt, non pauciores sint quam tres, cum plurimi, non plures quam novem. III. "Nam multos" inquit "esse non convenit, quod turba plerumque est turbulenta et Romae quidem stat, sedet Athenis, nusquam autem cubat. Ipsum deinde convivium constat" inquit "ex rebus quattuor et tum denique omnibus suis numeris absolutum est, si belli homunculi conlecti sunt, si electus locus, si tempus lectum, si apparatus non neglectus. Nec loquaces autem" inquit "convivas nec mutos legere oportet, quia eloquentia in foro et aput subsellia, silentium vero non in convivio, set in cubiculo esse debet". IV. Sermones igitur id temporis habendos censet non super rebus anxiis aut tortuosis, sed iucundos atque invitabiles et cum quadam inlecebra et voluptate utiles, ex quibus ingenium nostrum venustius fiat et amoenius. V. "Quod profecto" inquit "eveniet, si de id genus rebus ad communem vitae usum pertinentibus confabulemur, de quibus in foro atque in negotiis agendis loqui non est otium. Dominum autem" inquit "convivii esse oportet non tam lautum quam sine sordibus", et "In convivio legi non omnia debent, sed ea potissimum, quae simul sint biophele et delectent". VI. Neque non de secundis quoque mensis, cuiusmodi esse eas oporteat, praecipit. His enim verbis utitur: "Bellaria" inquit "ea maxime sunt mellita, quae mellita non sunt; pemmasin enim cum pepsei societas infida". VII. Quod Varro hoc in loco dixit "bellaria", ne quis forte in ista voce haereat, significat id vocabulum omne mensae secundae genus. Nam quae pemmata Graeci aut tragemata dixerunt, ea veteres nostri "bellaria" appellaverunt. Vina quoque dulciora est invenire in comoediis antiquioribus hoc nomine appellata dictaque esse ea "Liberi bellaria".

Testo latino da http://www.thelatinlibrary.com/gellius/ - Traduzione Salvatore Lo Leggio

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