25.6.19

Quella cannuccia d'argento. In morte di Riccardo Bacchelli (Domenico Porzio)



Tra l'indifferenza dei lettori che da anni disertavano la forte moralità della sua eloquenza stilistica e la quasi smodata cultura letteraria, politica, storica delle sue pagine, Riccardo Bacchelli se ne è andato, concludendo in un ospedale di Monza la sua lenta e lunga agonia. È stato, il grande vecchio, un malato imbarazzante: per l'amministrazione del Comune di Milano, che generosamente lo aveva per anni ospitato a proprie spese in una clinica cittadina; per i legislatori, i quali sul suo "caso" avevano finalmente, varato, tra polemiche che ancora si trascinano, una civile legge assistenziale a favore di chi, avendo meritoriamente operato per la nostra cultura, venga a trovarsi, in tarda età, impedito e indigente; per gli amici anche intimi, che negli ultimi tempi desistevano dal fargli visita per l'afflizione di dover riconoscere, nella muta, cieca ma ancora maestosa corporalità dello scrittore, del tutto arresa ormai alla vecchiaia, il già imprevedibile compagno di festosi e illuminanti colloqui.
Il fiume Bacchelli, un fiume di oltre diciottomila pagine in prosa di romanzi, commedie, saggi e in versi (la bibliografia di Maurizio Vitale per i soli anni 1909-1961 si stende su 150 pagine) è naturalmente giunto alla sua foce e si disperde nel mare infido della memoria delle generazioni. Il grande tavolo nello studio di via Borgonuovo è da molti anni privo del suo protagonista, della prodigiosa manualità dello scrittore.
L'ultima volta che lo vidi al lavoro, in quella stanza silenziosa e luminosa, disadorna di libri (li aveva tutti regalati alla Biblioteca comunale), ma ben fornita di enciclopedie e di vocabolari, Bacchelli, in giacca da camera sotto la quale spiccava una camicia a largo collo con la ben annodata cravatta a farfalla, scriveva, come da sempre usava, su di un grande foglio protocollo rigato, lasciando un ampio margine laterale. Scriveva con la mai smessa cannuccia d'argento e con uno dei suoi leggendari pennini inglesi marca Perry: ne aveva una grossa riserva regalatagli da un anonimo lettore, il quale aveva appreso, da un suo elzeviro, della difficoltà che incontrava nel procurarseli. "Ne ho per una ventina di libri", diceva; e senza esagerare nel computo e nel programma, lui che di libri fin da giovane era abituato a scriverne due o tre all'anno. "Anche il Manzoni", mi ripetè in quella occasione, asciugando col tampone il foglio appena scritto, "ricorreva a grandi margini laterali. Piegava il foglio in due e scriveva sul lato sinistro della piegatura; a destra, spesso senza cancellare l'originale, riscriveva, correggendoli, periodi e frasi". E inarcando ancor più i suoi sopraccigli a virgola e già innescando una risata, aggiunse: "E quello sciocco del Visconti, curando l'edizione del Fermo e Lucia, non se ne accorse: stampò, insieme, l'originale e le correzioni!".
Sorprendente, nella sua conversazione, era una immedesimazione nel tempo e nei luoghi della sua cultura: riferiva del Leopardi e del Tommaseo (uno "schiavone" che un po' detestava) come se li avesse visti e ascoltati la sera prima al ristorante. Nella clinica di via Lamarmora, dove mi ero adoprato per farlo ospitare, ancora riusciva a colloquiare senza amnesie, con felici spigolature nella memoria delle sue letture: ancora lo visitavano fantasmi di personaggi, tanto che più volte lo sorpresi a dettare alla moglie Ada ("la più devota e santa delle donne") frasi di favole e fantasticherie. Gradiva qualche bottiglia di vino e gli alberi di Natale fatti di pane cotto che gli portavo per quella festività; e molto teneva ad assicurarmi che la clinica disponeva di un ottimo cuoco, mentre degustava soddisfatto le smorte e obbligate pappine, le patate lesse, la pallida frutta cotta. Raramente e con pudore accennava a ciò che aveva dettato alla moglie, più volentieri parlava della sua esperienza di narratore, ribadendo che i buoni soggetti per un romanzo non sono mai quelli belli per se stessi, ma quelli che nascono "a frusto a frusto, a parola per parola, e quasi costretti a nascere". Mangiava a quel suo desco di malato con la stessa gratitudine di quando si sedeva ad una tavola ben imbandita, rammentandomi, tuttavia, che mai era stato, come gli amici sostenevano, un forte mangiatore; una pura leggenda nata dal fatto - spiegava - che quando a Milano, negli anni Trenta, scriveva il Mulino, restando diciotto ore di fila seduto alla scrivania e sorbendo solo caffè tra le molte sigarette arrotolate a mano, di necessità la sera, al Bagutta, doveva riassumere in uno solo i suoi dovuti tre pasti quotidiani.
Fin quando la malattia gli ha concesso di ordinare ed esprimere pensieri, Bacchelli, negli ultimi tempi, accennava con frequenza a sue meditazioni spirituali. Quasi dimentico di ogni trascorsa gloria mondana e letteraria, pareva dialogare ormai solo con l'eterno e con intatta passione di capire e di spiegare. Non lo interessava più la parola già usata per confutare il Progresso, "la maggior menzogna della storia umana", perché fatto "di crudeltà che corrompe e di corruzione che incrudelisce", non più la parola con cui nei romanzi aveva rincorso l'inafferrabile verità della vita, ma la parola che meditava sul tempo che dimostra l'eterno, che aggiunge mistero a mistero, giacché, concludeva, "il mondo prova ed esige Dio".
L'ultima volta che lo andai a visitare fece perfino fatica a riconoscermi: mi scambiò per il pittore Novello, e poi se ne scusò imbarazzato. Andarlo a trovare era aggiungere una pena alla sua pena di liberarsi così faticosamente dalla sua lunga ed operosa vita. Da anni, è certo, i lettori lo hanno dimenticato; altrettanto è certo che le generazioni a venire, se ancora faranno oggetto di studio la letteratura, dovranno riconoscere nelle pagine de Il mulino del Po, in questo suo gran romanzo sulla gente semplice vinta dalla Storia, uno dei capisaldi della nostra narrativa del secolo. E la sbalorditiva vitalità di Bacchelli, come scrisse Gianfranco Contini, apparirà davvero cosa d'altri tempi, "da comparare nel nostro secolo solo a quella, nell'ambito speculativo e storico, del Croce".

"la Repubblica", 9 ottobre 1985

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