8.6.19

Siamo una camera attraversata da venti continui. Contro il concetto di identità nazionale (Roberto Gigliucci)

Una provocazione a tema che usa come propria giustificazione la recensione di alcuni libri. Il finale mi pare, per usare una parola cara al Gigliucci, un po' stronzo, e anche di più. Ma dentro l'articolo trovo più di una notazione condivisibile (S.L.L.)


Uno dei caratteri del melanconico è anche quello di denigrare il proprio paese. Lo ha fatto rigogliosamente e sfrenatamente Thomas Bernhard nei confronti della sua Austria, e forse non aveva tutti i torti, se si va poi a guardare un film come Il nastro bianco del grande Haneke o si leggono i romanzi della Nobel Jelinek. “L’elemento cattolico-nazionalsocialista, i metodi educativi cattolico-nazionalsocialisti sono però normali in Austria, consueti, i più largamente diffusi e dunque producono dappertutto, senza ostacoli, effetti devastanti e crudeli su un intero popolo in definitiva nazionalsocialista e cattolico”, come si trova scritto in Estinzione di Bernhard, edizione italiana (traduzione dal tedesco di Andreina Lavagetto) di Auslöschung del 1986. Insomma, noi italiani siamo in ottima compagnia.
Parlare male degli italiani è un diritto solo degli italiani, peraltro, i quali si alterano se sono i forestieri a parlar male di loro. Solo noi dobbiamo denigrarci, perché in realtà ci riteniamo il popolo migliore del mondo. E in realtà non siamo né strame né gemme, siamo come tutti, magari senza averne precisa consapevolezza. E dunque il problema dell’identità. Premesso che l’identità è una costruzione, e che quindi l’identità nazionale è una super-costruzione, potremmo anche dire volgarmente che l’identità nazionale è una super-cazzata. E soprattutto che ogni identità è un danno.
Roberto Gigliucci
Noi siamo attraversati. L’io non esiste scientificamente, oggettivamente, è un Münchausen che si tira su per i capelli da solo, come le neuroscienze spiegano (assai meglio di me!). Noi siamo una camera aerata, attraversata da venti continui, impetuosi o dolci. Non c’è identità se non come forma di difesa da questi attraversamenti; quindi ogni identità è falsa. Sono stanco di essere attraversato da entità straniere (rumeni, albanesi), quindi chiudo una persiana (credo di chiuderla) e mi costruisco un pezzo di identità contro le entità straniere che mi attraversano (rumeni, albanesi).
Insomma, l’Italia può anche andarsene a casa del diavolo, non dobbiamo piangere una lacrima per questo. E così la Francia, la Germania ecc. Se mai, teniamo insieme l’Europa, ma solo per poter dialogare con il mondo, sperando in un futuro mondo unito. Dante aveva ragione: se i senesi sono fatui e sciocchi, i pisani meritano di affogare in Arno, i fiorentini meglio nemmeno parlarne, allora l’Italia, che per Dante esisteva, starà meglio governata da un imperatore sovranazionale che possiede tutto e non ruba nulla, perché ha già tutto. Un’utopia, ma la potremmo rimodulare meglio per noi oggi.

Belle parole, e vere.
Il centocinquantenario dell’unità italiana ha dato la stura a innumerevoli pubblicazioni sull’Italia e la sua identità, e fin qui tutto va bene, purché le sciocchezze in diffusione siano limitate, ovviamente. Ottimi studiosi ci hanno offerto succosi volumi: Marino Biondi, Alberto Banti e altri. Ora siamo chiamati a discutere partendo da tre libri. Il primo (Giulio Bollati, L’invenzione dell’Italia moderna. Leopardi, Manzoni e altre imprese ideali prima dell’Unità, pp. 195, € 22, Bollati Boringhieri, Torino 2014) è una raccolta di quelli che chiameremmo sine iniuria fegatelli critici del compianto Bollati, includenti la prefazione alla mitica edizione “NUE” della Crestomazia italiana: la prosa di Leopardi, il corposo contributo al Manuale di letteratura italiana di Brioschi-Di Girolamo su La prosa morale e civile e altri saggetti sparsi. Il discorso sull’Italia Bollati l’aveva scritto nel suo celebre libro einaudiano del 1983, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione. Alfonso Berardinelli, nella limpida introduzione al volume che ora recensiamo, ricorda il nucleo del pensiero storico di Bollati: l’Italia perse l’appuntamento con la modernità scientifico-politica, subì la sconfitta dell’illuminismo, insomma non diventò come l’Inghilterra o la Francia. È vero, come è in parte vera la classica querimonia della mancanza di una riforma protestante in Italia: estremismi ermeneutici, ma pregni di un senso su cui discutere. Non è un caso che certo protofascismo “colto” alla Malaparte facesse l’apologia della Controriforma. Roba da vomitare, come sappiamo. Alla severità lucida di Bollati (scomparso nel 1996) affianchiamo due volumi di “giovani” intellettuali contemporanei; Matteo di Gesù (Una nazione di carta. Tradizione letteraria e identità italiana, pp. 191, € 19, Carocci, Roma 2013) e Stefano Jossa (Un paese senza eroi. L’Italia da Jacopo Ortis a Montalbano, pp. 283, € 22, Laterza, Roma-Bari 2013). Il primo compie un’operazione in bilico fra il saggio militante e il volumetto adottabile per moduli universitari: una inevitabile “carocciata” (con tutto il rispetto per l’editoria accademica), che però riesce a salvare bene capra e cavoli. Da Dante a oggi Di Gesù ci guida per le strade della letterarietà identitaria italiana con la volontà di sfuggire alle ingessature istituzionali disciplinari, per promuovere un’idea di humanities ben più sovranazionale e pluridisciplinare. E in questo ha ragione da vendere, tanta ragione che merita una citazione un po’ estesa: “Intestare un mandato resistenziale alla letteratura – a chi la apprende come a chi la insegna – rispetto ai processi di indebolimento della nazione italiana, trincerarsi dietro le cattedre di italianistica per fronteggiare l’assalto all’integrità della patria, quand’anche si voglia ingaggiare questa lotta per difendere la nazione (...), rischia di essere una disperata strategia di retroguardia, dall’esito davvero incerto non tanto per la conservazione della nazione, quanto per la salvaguardia di un’idea di letteratura, rinnovata nei suoi statuti e nelle sue pratiche, capace ancora di quella fondamentale funzione civile che certamente le si deve attribuire”. La letteratura, proviamo ad aggiungere, è qualcosa che non è letteratura italiana, tedesca, portoghese o cubana: è letteratura, letta ovunque in quella sorta di esperanto che è la traduzione, diffusa, inoculata, messa in crisi, esaltata, lustrinata in tv o faticosamente promossa nelle terze pagine o infine liberata in rete, la grande democrazia a 5 stelle. Quindi le letterature nazionali, in quanto scritte in lingue nazionali, saranno preservate dalle competenze linguistico-filologiche degli esperti accademici, e questo non può tramontare, ma nessuno si scandalizzi se Dante sconvolge studenti americani tradotto da Singleton o francesi tradotto da Risset, o se i nostri studenti si emozionano ancora da matti a leggere in italiano L’idiota o Il castello. Ne consegue che l’identità letteraria nazionale, italiana ad esempio, può essere un oggetto di studio storico, ma non è certo un assoluto, dato che l’identità stessa non esiste se non come relativissima maligna costruzione umana.
Jossa scrive da parte sua un saggio a tesi: l’Italia non ha prodotto alcun eroe nazionale, né puramente letterario né storico-leggendario-letterario come Robin Hood, D’Artagnan o Guglielmo Tell. E questo è un bene, argomenta Jossa, perché l’eroe raggruma in sé irrazionalismo, indistinzione, estetismo politico, reazione, soteriologia e assenza di partecipazione collettiva, mentre l’anti-eroe o il semplice “personaggio” permette il confronto, la responsabilità, la comprensione, la consapevolezza sociale. Anche qui un viaggio storico, affascinante, da Foscolo a Nievo, da Pirandello a Camilleri. Certo, “resta tuttavia aperto il problema del rapporto tra autore ed eroe”: basti pensare a D’Annunzio, la cui icona sarebbe giunto il momento di ri-eradere e damnare una volta per sempre, o a Saviano, che Jossa non ama (ma qui c’è un po’ di snobberia da napoletano radical di classe alta, non me ne voglia l’amico). Quello che invece è tremendamente doloroso per chi è italiano è il fatto che gli eroi nella forma degli “uomini forti” sono stati ricorrenti nel nostro paese: da Napoleone a Garibaldi, da Mussolini a Berlusconi. E questo rende l’Italia storicamente la genitrice di molti mali, fra cui massime il fascismo, quindi indirettamente il nazionalsocialismo e quindi ancora la corresponsabilità con lo sterminio. Per non parlare dell’immoralismo iperbolico come normalità della politica.
Insomma, niente eroi ma un bel po’ di stronzi, ci sia concesso usare questa paroletta. In conclusione si potrebbe provare a fare un po’ d’ordine (anche se chi scrive è tutto meno che un uomo d’ordine): la letteratura è una cosa, ha un legame forte con la creazione di mitografie e identità nazionali ma è comunque letteratura, e come tale andrà valutata nell’ambito della funzione dell’estetica nel consorzio dell’homo sapiens. Poi: l’identità non esiste, è sempre falsa ed è sempre un male; trascendere le identità, frantumarle e costruire solidarietà globali è l’unico compito della politica attuale. Infine: Babele è una condanna, non una gioia, per cui un futuro di lingua unica universale (un inglese globish, verosimilmente) va auspicato; le lingue nazionali resteranno come dei macro-dialetti importanti e le competenze linguistiche specifiche saranno sempre attivate nei luoghi di ricerca scientifica. Così non mancherà mai una nuova edizione critica (identitaria? ah ah ah!) del Macbeth o della Divina Commedia, ma tutti nel mondo leggeranno Dante e Shakespeare facendosene attraversare pur essendo nati in Corea del sud o in Bolivia.

L'Indice dei libri del mese, giugno 2014

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