2.7.19

Curdi. La lunga guerra ignorata nelle montagne della Turchia e dell'Irak (Miriam Sarti 1967) - con un'amara premessa

Ho ritrovato in una copia dell'Unità di oltre 50 anni fa questo articolo (con annessa carina illustrativa) che faceva, allora, il punto sulla questione curda, molto bello e molto chiaro, credo persino utile a comprendere l'oggi di quelle terre martoriate. E ho fatto tra me e me qualche considerazione. 
Primo: la situazione non è per niente migliorata, anzi ... 
Secondo: quelli che ci avevano promesso dopo la fine dell'URSS un mondo unificato e pacificato dal mercato e dal benessere capitalistico si ingannavano e/o ci ingannavano. Forse non è sempre il capitalismo a generare le guerre, che talora hanno radici molto lontane, ma di sicuro le alimenta e se ne alimenta.
Terzo: l'Unione Sovietica, pur con i suoi errori ed orrori gravissimi e tragici, conservava un nocciolo duro delle sue origini internazionalistiche, pacifiste e umanitarie, che immettevano feconde contraddizioni nelle sue stesse politiche imperiali. Non dirò certo "ardatece l'URSS", perché quella specie di comunismo non è crollato solo per l'iniziativa dei suoi nemici, ma perché era fatto molto male; ma credo di poter dire che, senza l'URSS, e nonostante i progressi tecnologici che potrebbero sconfiggere dappertutto la miseria, il mondo è peggiorato. (S.L.L.) 


Un popolo di pastori che lotta per l’indipendenza

Si chiamano « Pesh-merga » (« a favore della vita ») i soldati dell’esercito del leggendario Barzani — Dal crollo dell’Impero Ottomano ai trattati di Losanna — La feroce politica di repressione dei turchi — Le prime rivolte iniziano nel 1930 — La storia del Kurdistan irakeno: dalla vittoria alla nuova clandestinità — Un problema che deve essere risolto all’interno del mondo e dell’unità araba

«Pesh-merga significa nella nostra lingua a favore della vita. Ma sarebbe più giusto tradurre votato alla morte. Votato alla morte per il Kurdistan ». Cosi si definiscono i Pesh-merga. i soldati regolari dell’esercito di Mollati Moustafa Barzani, il leggendario capotribù curdo che ha diretto, attorno agli anni 30, la rivolta contro re Faysal. che ha fondato una libera Repubblica curda nel 1946 su territorio persiano, che è stato costretto all’esilio con alcune centinaia di suoi uomini per quasi dodici anni, che è rientrato come un eroe nazionale a Bagdad nel 1958 e che dal 1961 è in guerra dichiarata contro il governo centrale. Un fanatico separatista? Un «signore della guerra»? Un capo religioso? Un conseguente rivoluzionario? Non è facile dare una risposta a questi interrogatici. E non è nemmeno facile raggiungere i protagonisti di questa guerra, che vivono e combattono nella zona più impervia del massiccio montuoso che sta tra Turchia. Iran e lrak, là dove nascono il Tigri e l’EuJrate e dove la Bibbia vuole sia andata ad infrangersi, dopo il Diluvio, l’Arca di Noè.
René Mauriès, un giornalista francese che, circa un anno fa. è riuscito a raggiungere i guerriglieri e a vivere per alcune settimane nelle zone controllate dal « Consiglio del Comando della Rivoluzione curda» e che ha assistito alla sanguinosa battaglia di Ruwanduz, ha pubblicato recentemente un ampio resoconto del suo viaggio (R. Mauriès: Le Kurdistan ou la mort , ed. Laffont). C’è in queste pagine di reportage da una zona di guerra, una sincera commozione ma anche il tentativo, abbastanza scoperto, di interpretare in chiave nettamente antiaraba (ed antisovietica) una questione come quella curda la cui soluzione non può essere che affidata all’accordo politico.
Anche R. Abdel Rader, in un saggio già recensito dall’Unità. ha collocato la questione curda in questa prospettiva. Anzi, egli pretende addirittura di tracciare un singolare segno di uguaglianza tra il problema curdo e quello israeliano. Si tratta, dice Abdel Rader di « due nazionalismi non arabi che costituiscono in seno al mondo arabo la contraddizione principale capace di determinare un rovesciamento rivoluzionario imminente ». La proposta appare quanto mai arbitraria. Non si vede infatti proprio cosa abbiano in comune il nazionalismo israeliano, con la sua carica aggressiva antiaraba e il suo collegamento internazionale con l’imperialismo, con la battaglia nazionale di un popolo come quello curdo, che colloca le proprie rivendicazioni di autonomia ben all’interno del mondo e dell’unità araba.
Quanti sono i curdi? Persino su questo c’è incertezza. Autorevoli pubblicazioni inglesi parlano di poco più di tre milioni di persone, B. Venier, uno studioso francese di questioni irakene, li fa ammontare a oltre sette milioni. 1 dati statistici, anche quelli che si riferiscono alla popolazione, sono sempre piuttosto approssimativi, in queste zone. Fatto sta che colonie curde più o meno consistenti sono presenti in tutto il Medio Oriente; ma in Irak essi sono circa due milioni, un terzo circa della popolazione complessiva del paese, il più grosso problema nazionale di un paese che è un mosaico di nazionalità.
«Morire per te. Kurdistan, niente è più bello...»: popolo di pastori e di guerrieri (non parlano delle loro gesta perfino Erodoto e Senofonte? non era curdo il Saladino?), i curdi cantano una vigorosa poesia epica. Eppure il Kurdistan, come Stato, non è mai esistito, anche se unità di linguaggio (una variante del persiano), di cultura e di razza ha alimentato per lungo periodo le aspirazioni nazionalistiche di alcuni gruppi.
Ci fu anche un momento, subito dopo la prima guerra mondiale, in cui parve che queste speranze potessero trovare concreta realizzazione. Il Trattato di Sèvres infatti mentre sanciva il crollo e lo smembramento dell’Impero ottomano non si preoccupava di alimentare in funzione antiturca le aspirazioni nazionalistiche di popoli nuovi. Venne quindi stabilito, a favore dei curdi una autonomia estremamente larga fino a prevedere la possibilità di formazione di uno Stato curdo indipendente ove tale volontà fosse stata espressa dalla maggioranza delle popolazioni interessate. Il Trattato di Sèvres venne annullato dai successivi accordi di Losanna; ma che il problema curdo non potesse ricondursi alla irrequietezza di alcuni capitribù è provato anche dal fatto che in quella sede il capo della delegazione turca, Ismet Inonu, fosse costretto a fare dichiarazioni concilianti di questo tipo: «La Turchia è il paese di due popoli. turchi e curdi, e tutti e due hanno ugualmente diritto a governare il paese». Le cose andarono molto diversamente. e la politica kemalista di turchizzazione conobbe episodi di una ferocia inaudita. Persino la parola curdo venne praticamente bandita e sostituita dall’ipocrita termine «turco della montagna ».
Il Kurdistan irakeno comprende la zona di Mossoul, ricca di petrolio. Sì spiega quindi l’attenzione che fin da allora l’Inghilterra portò alla questione, ottenendo finalmente l’inclusione della regione nellTrak sottoposto a suo mandato. Mossoul venne definitivamente assegnata all'lrak nel dicembre del 1925. con una decisione della Società delle Nazioni che sottolineava tuttavia la esigenza di misure particolari per il rispetto della etnia curda.
I curdi furono tanto poco soddisfatti di questa soluzione che si rifiutarono, tra l’altro, di prendere parte al referendum plebiscito con cui l’Inghilterra fece eleggere Re l'Emiro Faysal. E viste costantemente disattese le loro rivendicazioni, diedero vita attorno al 1930 alle prime vere e proprie rivolte. Alta testa di queste si posero i capi di una delle più antiche e «turbolente» tribù della montagna, i Barzani, insieme capi religiosi politici e militari. I fratelli Barzani erano due: il primo, Mahmoud trovò la morte in combattimento. Il secondo, Moustafa. dirige la rivolta dal 1933. Sono passati da allora trentacinque anni. Moustafa Barzani ha conosciuto la vittoria e la ritirata, l’esilio e il trionfo. Ha fondato, nel 1946 la libera Repubblica di Mahabad schiacciata dopo nemmeno un anno dalla repressione congiunta inglese irakena e persiana. Mentre i capi della Repubblica venivano impiccati dopo un processo sommario, Moustafa Barzani con un migliaio di fedelissimi riusciva a sfuggire all’accanito inseguimento nemico attraversando. in pieno inverno, una catena montuosa di duemila metri di altezza per strade impervie da lui solo conosciute, raggiungendo cosi il territorio sovietico.
L’esilio e la clandestinità non impedivano al movimento di riorganizzarsi e di far sentire la sua voce, anche a livello intemazionale, in tutte le possibili sedi. Così dopo la rivoluzione del 14 luglio che rovesciava la monarchia, Moustafa Barzani rientrava trionfalmente a Bagdad dove si incontrava pubblicamente con Kassem. Intanto il poeta curdo Golan. da molti anni in carcere veniva liberato assieme ad altri protagonisti della repubblica di Mahabad, sopravvissuti alla lunga detenzione. La costituzione provvisoria riconosceva l’etnia curda come associata con gli arabi nella nazione irakena, aboliva le vecchie norme che proclamavano l’arabo lingua ufficiale dello stato, apriva ai curdi possibilità larghe di avanzamento e di carriera negli impieghi e nell’esercito, mentre si istituiva una cattedra di lingua e storia curda nell’Università. Il disco d’oro, emblema del Saladino trovava posto sulla bandiera irakena, mentre nello stemma dello Stato, a simboleggiare questa raggiunta unità, si incrociavano il pugnale curdo e la spada araba.
Con il nuovo regime avevano vita legale anche i partiti e tra questi il Partito Democratico del Kurdistan Irakeno (PDK1). Ne era segretario generale lo stesso Moustafa Barzani, naturalmente. (Egli mantiene ancora questa carica, nonostante alcuni fenomeni di crisi che si sono verificati recentemente). Il partito si richiamava alla dottrina scientifica del marxismo leninismo, respingeva in modo esplicito la tentazione nazionalistica precisando le rivendicazioni nazionali «sulla base dell’autonomia interna nel quadro dell’unità irakena», era assai dettagliato infine per quanto si riferiva alle misure di carattere economico da adottare per far uscire il Kurdistan dalle sue più che secolari condizioni di arretratezza (richiedeva ad esempio che una parte delle risorse del sottosuolo venisse dedicata alla industrializzazione della zona). La questione curda si definiva quindi non come uno strumento eversivo della unità irakena, ma come un elemento di tensione per il raggiungimento di obiettivi più avanzali sul piano sociale e politico. Questi obiettivi, che erano del resto comuni al movimento democratico irakeno in quel periodo, non vennero raggiunti, e mentre aumentava il disagio delle popolazioni per le crescenti difficoltà economiche, cresceva anche il disagio di coloro che avevano creduto negli impegni di Kassem. Dalle polemiche di stampa si passò rapidamente alle misure di polizia, alle prime repressioni, finché nell’ottobre del 1961 il PDK1 venne di nuovo messo fuori legge e i suoi beni confiscati.
Moustafa Barzani aveva già lasciato la favolosa villa alla periferia di Bagdad che il regime aveva messo a sua disposizione (era la villa del vecchio Nouri Saìd, consigliere di Re Faysal che la popolazione aveva linciato all’alba del 14 luglio), ed era tornato tra le sue montagne. Da allora, reparti regolari dell’esercito irakeno sono impegnati nell’opera di repressione, ma senza risultato. I Pesh-merga subiscono dure perdite, e ne infliggono, controllano vaste zone dell’interno e della montagna organizzando la vita civile ed economica di quelle popolazioni, resistono agli attacchi frontali ed ai bombardamenti. Ma sette anni di guerra sono duri: villaggi e paesi interi sono distrutti dai bombardamenti e svuotati dalla carestia, migliaia di feriti sono privi di cure e di medicine. Sulle montagne del Kurdistan d’inverno la temperatura scende ai 20 gradi sottozero.
L’ultima grande offensiva contro i guerriglieri curdi è stata lanciata senza successo lo scorso anno; e a Ruwanduz. i Pesh-merga e le armate regolari hanno avuto migliaia di morti. « Ogni famiglia irakena — notava allora il corrispondente di Le Monde — ha ormai un parente o un amico morto o ferito nella guerra contro i curdi ». Il governo centrale sembra aver fatto, da allora, alcuni passi con creti avanti per giungere ad una regolamentazione pacifica del conflitto attraverso una presa di contatto con Barzani per definire le condizioni non solo del cessate il fuoco — praticamente in atto da allora — ma anche di un rientro del movimento curdo nella legalità. Lo stesso Moustafa Barzani dichiarava: « Non è possibile nessuna soluzione militare, Nè per noi nè per Bagdad. Bisogna convincersene ».
Probabilmente il governo Bazzaz n’è convinto, anche se non è un mistero che gruppi consistenti di militari si oppongono ad una soluzione politica del conflitto che necessariamente significa garanzie e concessioni al movimento curdo. Il tentativo di colpo di Stato della fine del giugno 1966, tentativo fallito per la pronta reazione governativa, ne è una riprova.
Anche per trattare, non solo per combattere, ci vuole coraggio.
Tra le molte contraddizioni e problemi che lo travagliano il movimento democratico arabo ha di fronte anche questo, non il più piccolo nè il più trascurabile.

"l'Unità" , 18 ottobre 1967

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