29.7.19

Dio mi è testimone che sono scemo... (Umberto Eco)



L’altra mattina a Madrid ero a colazione col mio re. Non vorrei essere frainteso: pur essendo di fieri sentimenti repubblicani, due anni fa sono stato nominato duca del Regno di Redonda (col titolo di Duque de l’Isla del Dia de Antes) e questa dignità ducale condivido con Pedro Almodóvar, Antonia Susan Byatt, Francis Ford Coppola, Arturo Pérez-Reverte, Fernando Savater, Pietro Citati, Claudio Magris, Ray Bradbury e alcuni altri, tutti in qualche modo uniti dalla comune qualità di essere simpatici al re.
Dunque, l’isola di Redonda sta nelle Indie Occidentali, misura trenta chilometri quadrati (un fazzoletto), è del tutto disabitata e ritengo che nessuno dei suoi monarchi vi abbia mai messo piede. L’aveva acquistata nel 1865 un banchiere, Matthew Dowdy Shiell, che aveva chiesto alla regina Vittoria di costituirla in regno autonomo, ciò che la graziosa maestà aveva fatto senza problemi perché non vi vedeva alcuna minaccia per l’impero coloniale britannico. Nel corso dei decenni l’isola era passata sotto vari monarchi, alcuni dei quali avevano venduto il titolo più volte, provocando risse di pretendenti (e se volete sapere tutta la storia pluridinastica cercate Redonda su Wikipedia), e nel 1997 l’ultimo re aveva abdicato a favore di un famoso scrittore spagnolo, Javier Marìas (ampiamente tradotto anche in Italia), il quale ha cominciato a nominare duchi a destra e a manca.
Ecco tutta la storia, che naturalmente sa un poco di follia patafisica, ma insomma, diventare duca non è cosa da tutti i giorni. Il punto tuttavia non è questo: è che nel corso del la nostra conversazione Marìas ha detto una cosa sulla qua le vale la pena di riflettere. Si discuteva sul fatto evidente che oggi la gente è disposta a fare carte false pur di apparire su un teleschermo, anche solo come l’imbecille che fa ciao ciao dietro all’intervistato. Recentemente in Italia il fratello di una ragazza barbaramente assassinata, avendo dolorosamente sfiorato gli onori della cronaca, è andato da Lele Mora a chiedere un ingaggio televisivo per poter fare fruttare quella sua tragica notorietà, e sappiamo di chi, pur di apparire alla ribalta della cronaca, è disposto a dichiararsi cornuto, impotente o truffatore, né è ignoto agli psicologi criminali che ciò che muove il serial killer è il desiderio di essere scoperto e diventare celebre.
Perché questa follia, ci si domandava? Marìas ha avanzato l’ipotesi che quanto accade oggi dipenda dal fatto che gli uomini non credano più in Dio. Un tempo gli uomini erano persuasi che ogni loro azione avesse almeno uno Spettatore, che conosceva tutti i loro gesti (e i loro pensieri), poteva comprenderli o all’occorrenza condannarli. Si poteva essere un reietto, un buono a nulla, uno “sfigato” ignorato dai propri simili, che un minuto dopo la sua scomparsa sarebbe stato dimenticato da tutti, ma si nutriva la persuasione che almeno Uno sapesse lutto di noi.
“Dio sa che cosa ho sofferto,” si diceva la nonna inferma, abbandonata dai nipoti, “Dio sa che sono innocente,” si consolava chi era stato condannato ingiustamente, “Dio sa quanto ho fatto per te,” diceva la madre al figlio sconoscente, “Dio sa quanto ti amo,” gridava l’amante abbandonato, “Solo Dio sa quante ne ho passate,” lamentava lo sciagurato delle cui svenirne non importava niente a nessuno. Dio era sempre invocato come l’occhio a cui nulla sfuggiva e il cui sguardo dava senso anche alla vita più grigia e insensata.
Scomparso, rimosso questo Testimone onniveggente, che cosa rimane? L’occhio della società, l’occhio degli altri, a cui bisogna mostrarsi per non sprofondare nel buco nero dell’anonimato, nel vortice della dimenticanza, anche a costo di scegliere il ruolo dello scemo del paese che si mette in mutande e balla sul tavolo dell’osteria. L’apparizione sullo schermo è l’unico succedaneo della trascendenza, e ne è un succedaneo tutto sommato gratificante: ci si vede (e ci vedono) in un aldilà, ma in compenso in quell’aldilà tutti ci vedono qua, e mentre qua ci siamo anche noi - pensate che vantaggio, godere di tutti i vantaggi dell’immortalità (sia pure assai rapida e transeunte) e avere nel contempo la possibilità di essere festeggiati a casa nostra (in terra) per la nostra assunzione nell Empireo.
Il guaio è che in questi casi si equivoca sul doppio significato del “riconoscimento”. Tutti aspiriamo a che vengano “riconosciuti” i nostri meriti, o i nostri sacrifici, o qualsiasi altra nostra bella qualità; ma quando, dopo essere apparsi sullo schermo, qualcuno ci vede al bar e ci dice "l'ho vista ieri in televisione” semplicemente “riconosce te , ovvero la tua faccia — il che è cosa assai diversa.

Da “L'Espresso” una bustina di Minerva del 2010 – ora in Pape Satàn Aleppe, La Nave di Teseo, 2016

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