28.7.19

Gli ospiti di Kathi Kobus: un cabaret nella “belle époque”. Erich Mühsam racconta il “Simpl” di Monaco.

Kathi Kobus
Il Simplicissimus era nei primi anni del XX secolo una rivista satirico-letteraria di Monaco di Baviera, ma anche un cabaret letterario di quella città frequentato non solo dai redattori della rivista, ma da un pubblico di artisti e di anticonformisti. Quella che segue è la rievocazione che del Simpl (così era chiamato dagli habitués) fa, sul finire degli Anni Venti, Erich Mühsam, poeta e cabarettista di idee anarco-socialiste, nelle sue memorie. Nel frattempo aveva fatto a tempo a partecipare, subito dopo la Grande Guerra, alla Rivoluzione operaia di Monaco e alla Repubblica dei Consigli. Quando scrive, tra il 1927 e il 1929, Mühsam  viveva a Berlino, ove dirigeva la rivista anarchica “Fanal”. (S.L.L.)

Una sera al Simplicisimus, prima della Grande Guerra. Archivio Fotografico della Città di Monaco

«Osteria degli artisti» si chiamava come sottotitolo il locale Simplicissimus della signorina Kathi Kobus nella Turkenstrasse a Monaco. All’ingresso c’era una sala non diversa da qualsiasi altra osteria, e dietro c’era il bancone, il pianoforte e il podio. Nel mezzo un corridoio univa le due salette come un canale, un corridoio stretto e lungo, eppure così guarnito di sedie e tavolini che per attraversarlo nelle ore di punta, quando l’attività era in pieno svolgimento, ci volevano mille contorsionismi, e le cameriere che tenevano vassoi e bottiglie come giocolieri sembravano delle vere e proprie acrobate. Il pigia pigia in tutte le stanze diventava pauroso a partire dalle 10 di sera e l’aria che si vedeva ondeggiare piena di vapori, di vino, di fumo di tabacco e di sudore umano spiegava l’attrazione che il Simpl esercitava sul popolo degli artisti schwabinghiani, viziati nei loro gusti. Però era così, tutti ci sentivamo a nostro agio in quel locale che di giorno assomigliava più al negozio di un commerciante d’arte che ad un’osteria per artisti. A tutte le pareti erano appesi dipinti a olio, disegni, acqueforti, incisioni e puntesecche, di ogni misura, di ogni stile, di ogni valore; ritratti, paesaggi, caricature, nature morte di maestri ignoti e di celebrità, che in parte si potevano incontrare di persona seduti sotto le loro opere, in parte rifugiati ormai da tempo nel quartiere delle ville, avendo deciso di tirare una netta linea di separazione fra passato e presente, come era stato per Franz Stuck. Del suo periodo scapigliato c’era rimasto appeso un possente dipinto che incupiva sullo sfondo il nostro tavolo abituale.
Kathi Kobus era una donna intelligente. Senza essere una conoscitrice d’arte, sapeva che talvolta da un qualche talento giovane sconosciuto viene fuori col tempo un genio ammirevole e che gli scarabocchi buttati giù gaiamente da un Michelangelo ventenne sulla tovaglia di carta, cento anni dopo possono valere una fortuna.
Così faceva credito a cuor leggero agli artisti e, quando il debito era abbastanza alto, allora si accordava per un disegno preso dall’atelier del suo cliente, e l’appendeva - quella merce scambiata contro il suo vino aspro - ad una parete del locale, in posizione più o meno visibile. Certo non voglio dire che tutti i quadri e le stampe appesi da Kathi Kobus siano stati donati in cambio di conti da saldare. Sicuramente alcuni artisti che pagavano regolarmente il proprio conto, talvolta, spontaneamente, offrivano in regalo un foglio del loro album alla padrona che ne aveva fatto richiesta. Ad ogni modo tutti i disegnatori della rivista omonima erano presenti sulle pareti del Simplicissimus: Thomas Theodor Heine ed Eduard Thony, Rudolf Wilke e Wilhelm Schuly, Pascin e Karl Arnold. Di Albert Weisgerber vi si trovava un gran numero di eccellenti quadri e disegni fra cui spiccava un notevole ritratto di Ludwig Scharf appeso sul posto che occupava d’abitudine. Josef Futterer aveva donato diverse sue opere e accanto alle silhouette di E. M. Engert stavano appese immagini di animali di Franz Marc e nudi di donna di Max Unold.
Kathi Kobus faceva uso delle doti della propria clientela di poeti dando loro occasione di declamare versi dall’alto del podio, cosa che succedeva generalmente per vanità, spesso per ottenere una mancia e talvolta per pagare i debiti. A volte bastava una bottiglia di spumante offerta gratuitamente per spingere poeti, cantanti e musicisti di ambo i sessi ad esibirsi.
Nei primi tempi non si poteva parlare di un vero e proprio cabaret da Kathi Kobus. Qualcuno degli artisti prendeva in mano la chitarra e si metteva a cantare da solo o con altri al tavolo qualche stornello bavarese, soprattutto Albert Weisgerber ne conosceva tanti. Oppure Frank Wedekind si metteva a cantare, accompagnandosi con il liuto, le sue storie da cantimbanco. Poi veniva Kathi e pregava uno di noi di recitare qualche poesia, oppure l’ungherese Dunajec suonava al violino, scuotendo la criniera, qualche dolorosa melodia strascicata.
Fu poco a poco che Kathi ingaggiò alcuni suoi clienti per intrattenere regolarmente il pubblico. Le paghe variavano. Più di tutti riceveva Ludwig Scharf. Sera dopo sera si trascinava con una sedia in mano al centro del locale per recitare con la sua pronuncia palatina, ma con una verve di grande effetto, sempre le stesse poesie: Proleta sum, Il bambino morto e Tempesta di novembre. Per un periodo di tempo mi fu offerto pranzo e cena in cambio di rime sciolte, ballate e poesie satiriche. Venivano ingaggiate anche donne, la canzonettista Annie Trautner, in seguito una voce di soprano che aveva tutto l’aspetto e il comportamento monacense, ma sfoggiava il nome poetico di Mucki Bergé, per un certo tempo Emmy Hennings che recitava gioielli di gusto piccante, poetessa di vocazione, senza però rendersene conto. Come «poeta della casa» fu ingaggiato il sassone Hans Bòtticher, uomo dotato di talento e di spirito già allora, quando nessuno di noi sospettava che un giorno lo avrebbe reso celebre lo pseudonimo di Joachim Ringelnatz. Mise in poesia anche la stessa Kathi, le piccole vicende del Simpl, noi colleghi e colleghe, l’enorme pigia pigia del pubblico, che ci voleva vedere e sentire, nonché l’ora fatale in cui una volta un principe degli Hohenzollern in carne ed ossa - credo che si trattasse di Wilhelm il maggiore - con vari studenti di una corporazione, in incognito, ma ben in evidenza per i suoi vivaci schiamazzi, cercava nel nostro terreno di caccia il suo diporto. Kathi venne asapere di quel suo nuovo ospite da servire e tirando fuori tutto il suo spirito bavarese ammonì l’illustrissima compagnia con le parole: «e state zitti, prussiani del cavolo!», riducendoli al silenzio. (Cito per sentito dire, perché, quando mi fu accennata resistenza di quegli ospiti, mi misi in sciopero e lasciai il locale per quella sera).
Era ammirevole l’energia con cui la robusta padrona di casa sapeva incutere rispetto nel suo locale. Non sopportava neppure gli eccessi dell’alcol. Se c’era una zuffa interveniva di persona e buttava fuori i responsabili senza vergognarsi di usare le sue mani robuste, se qualcuno opponeva resistenza. Ho visto con i miei occhi come lei buttò fuori due studenti che volevano dare spettacolo: afferrando, uno per mano, i due colletti degli avventori, li sbattè più volte l’uno contro l’altro spingendoli insieme fuori della porta.
Kathi Kobus dava del tu a tutti i suoi avventori. Una lettera che una volta mi spedì dopo uno dei miei viaggi cominciava così: «Onoratissimo signor Muhsam! mi devi ancora più di quaranta marchi...» e alla fine concludeva con «cordiali saluti, tua rispettosa Kathi Kobus», con un post-scriptum che recitava: «Ritorni presto, Erich?».
Quando poi mi rifeci vivo e le chiesi perché mi spedisse quelle letteracce da creditrice, lei rispose con tono amichevole: «Va bene, no? Se sei di nuovo qui!». Quindi tirò fuori il libro dei conti e cancellò tutto il mio debito: «Però devi recitare, eh!», aggiunse poi.
Un giorno Kathi annunciò ai suoi ospiti attoniti di essersi fidanzata con Ludwig Scharf. L’evento fu festeggiato a dovere. La felice fidanzatina ci dispensò una quantità infinita della sua bevanda alla pesca. Dopo l’ora di chiusura legale l’osteria si spostò nell’ampia cucina e Georg Queri, il robusto poeta dialettale bavarese, tenne un discorso ufficiale tutto condito più che di dolci lirismi di salaci scurrilità. Da quel momento però il repertorio del Simpl si arricchì ogni sera di un bacio di saluto inscenato, non appena il poeta metteva piede nel locale, dalle quattro labbra baffute della coppia di fidanzati. Il fidanzamento durò fino alle nozze di Ludwig Scharf con una contessa ungherese; ma questo non cambiò nulla, salvo il bacio, che fu escluso dal programma, mentre la moglie del poeta ricevette il proprio posto accanto a lui al tavolo abituale.
Kathi Kobus però scoprì un nuovo talento artistico, questa volta in se stessa. Si presentò ad un tratto in costume altobavarese e salì sul podio, da cui sciorinò con una serie di poesie dialettali un sacco d’ironia nella sala.
Fino a che Wedekind non raccolse intorno a sé nella Torggelstube una cerchia compatta con esigenze culturali più elevate e accurata ricercatezza, e fino a che i locali concorrenti come il Bunter Vogel e la Bohème non sottrassero alla più autentica osteria degli artisti di Monaco, col suo non troppo variato regime di chiasso, spintoni e cattivo odore, una parte della clientela, nel Simplicissimus di Kathi Kobus circolò l’intellighenzia di Monaco in tutte le sue ramificazioni e affiliazioni; e in certe sere si potevano vedere rappresentati ai vari tavoli gli elementi più eterogenei della letteratura e dell’arte, che nell’entrare si facevano un cenno di amicizia, si salutavano con cortesia o si guardavano ostentatamente in cagnesco. E l’abilissimo e spiritosissimo Edgar Steiger era in grado di commentare salacemente il provincialismo intellettuale di quegli sguardi incrociati. Ad un tavolo stava seduta la redazione della «Jugend» con i suoi più eccellenti collaboratori, quali Fritz Erler, Karl Ettlinger, Franz Langheinrich, A. de Nora, A. M. Eichler o Spiegel; ad un altro tavolo forse Max Halbe con i suoi amici, Karl RòBler, Heinrich Schaumberger o Paul Brany, l’artista delle marionette. Al contempo ci poteva essere nello stesso locale, ma agli antipodi, Josef Ruederer, Friedrich Freska e così via.
Il Simplicissimus fu il luogo dove fra Wedekind e Halbe scoppiò la guerra più volte e più volte fu conclusa la pace.
Là sedevo spesso con la contessa Reventlow e con il futuro ministro delle finanze del governo Eisner, il professor Jaffé, con Otto Gross, lo psicoanalista, e tutto il suo seguito di cui faceva parte anche il pittore Léonard Frank, che ad un tratto si dette alla letteratura e ci sorprese tutti con opere come La masnada e La causa, di cui nessuno sospettava che sarebbe stato capace.
Da lì data anche la mia lunga conoscenza con Bruno Frank e con molti, molti altri, che oggi, dopo aver errato per qualche tempo nell’oceano della genialità, sono approdati nel porto di un solido mestiere borghese o hanno raggiunto vette accademiche. Certo, molti di loro purtroppo ci hanno lasciato per sempre e qualcuno anche dei migliori, come Albert Weisgerber o Franz Marc, trovando una morte in sommo grado inadeguata alla loro indole: sul campo di battaglia. Anche il raffinato, sensibile e sempre un po’ toccante Max Dauthendey, che sedeva spesso con noi nel Simplicissimus, a suo modo è stato una vittima della guerra. L’espressione «morire di crepacuore» mi è sempre sembrata esagerata, ma nel suo caso sembra proprio che corrisponda al vero. A Giava si trovò tagliato fuori da ogni amore e comprensione per il suo inerme spirito di bambino senza disporre dell’energia sufficiente per potersi riprendere dalla nostalgia della patria e della moglie, delle cui cure materne aveva tanto bisogno.
Dauthendey fu solo un lirico, forse ancora più lirico di Peter Hille, per il quale la lirica era l’espressione di una sorta di vagabondaggio. Il poeta di Wurzburg invece era ebbro d’immagini liriche, s’inebriava delle onomatopee, delle metafore, dei simboli e delle similitudini. In una delle sue novelle mi ricordo della descrizione di un tramonto sul mare, dove la sfera del sole appariva come un’arancia sanguigna sbucciata, posata sopra un vassoio di argento opaco.
Dauthendey era l’uomo meno pratico che ci si possa immaginare, ma si illudeva di essere un brillante uomo di affari. Dalla sua Ballata della balia si era ripromesso un successo grandioso. Si trattava di un libro che nello stile dei cantastorie tratteggiava ogni sorta di misteriose avventure dell’anima. Non ci fu però alcun successo per quel libro, così che Dauthendey si fece venire un’idea, quella di recitare l’opera in pubblico. Per l’appunto eravamo sotto Natale e sui muri di Monaco stavano affissi enormi manifesti con l’annuncio: «Recital di ballate di Dauthendey in dodici serate», e addirittura nella Tonhalle che era una grande sala dove entravano almeno 800 persone. L’ingresso costava come un biglietto per il concerto. L’organizzatore era il poeta stesso. Aveva speso una somma ingente per i manifesti e per l’affitto della sala e venne tutto raggiante al Simpl per chiederci se avessimo letto l’annuncio. Le nostre espressioni scettiche non lo irritavano affatto, essendo convinto che le dodici recite - dalla metà di dicembre al primo gennaio - avrebbero registrato il tutto esaurito, che gli avrebbe fruttato un sacco di soldi assicurando al suo libro vendite colossali. Poi ci fu la prima serata di ballate; c’erano al massimo 25 persone in sala di cui nella migliore delle ipotesi forse dieci avevano pagato il biglietto. Dopo la recita, sia il recitante che la maggior parte del suo pubblico andarono al Simpl, e qui si tenne consiglio su come si potevano arginare le perdite di Dauthendey.
Il risultato - se ben mi ricordo era stata una proposta di Korfitz Holm - fu che Dauthendey il giorno dopo fece incollare sui suoi manifesti una striscia verde trasversale con la scritta: «Con la partecipazione di Erich Muhsam e Ludwig Scharf», riducendo le serate da dodici a sei. In quelle serate noi ci trovammo soli di fronte a una sala vuota. Per riparare al disastro Dauthendey si fece venire un’altra idea: affittare un locale - per l’appunto ce n’era uno sfitto di fronte al Café Stephanie - mettersi seduto su di un tappeto dalla mattina alla sera per raccontare fiabe alla gente. Prezzo d’ingresso: 50 Pfennig. Ci volle una fatica d’inferno per distoglierlo da questa nuova idea che sicuramente l’avrebbe condotto ad un fiasco ancora più colossale.
Col tempo l’osteria degli artisti di Kathi Kobus divenne un locale per studenti. La padrona stessa aveva volto il suo interesse ad una nuova impresa, un locale per gite in campagna nella valle dell’Isar, che lei aveva aperto all’insegna del Ristoro di Kathi. Una parte della sua collezione di quadri la trasferì laggiù. Più tardi vendette il Simplicissimus, ma lo rilevò di nuovo, successivamente, e sembra che a tutt’oggi sia ancora là a vendere arte e vino rosso.
Il carattere del locale, mi dicono che si sia trasformato, come si è trasformato il carattere della città, la cui cultura ironica e leggera vi trovò per tanti anni una sua particolare espressione. Forse oggi un ventilatore elettrico fa circolare nel locale un’aria un po’ migliore rispetto a vent’anni fa, ma non son proprio sicuro che l’aria di oggi nel Simplicissimus possa stimolare negli animi artistici ancora quella gioia spregiudicata come quando Isadora Duncan, dopo uno spettacolo pubblico di danza, venne da noi nella nostra cerchia e, sempre più contenta, si sfilò alla fine scarpe e calze per darci con splendida esuberanza un magnifico saggio privato della sua arte.
La morte ha raccolto solerte una grande messe fra gli ospiti di Kathi Kobus. Quelli che ancora sono vivi, vivono dispersi in ogni parte del Paese e del mondo. In quello stretto corridoio pieno di tavoli per passare dalla sala anteriore a quella posteriore non si contorce più nessuno di quelli che un tempo ogni notte sedevano assieme e applaudivano le ragazze che cantavano e imprecavano contro il vino aspro. Alle pareti saranno appesi altri quadri e altre canzoni verranno accompagnate alla chitarra. Il ricordo però rende spesso presente un passato che è più vivo di ogni asettica galvanizzazione di una tradizione diventata ormai estranea.

da Unpolitische Erinnerungen, 1927-1929 in Dal cabaret alle barricate, elèuthera,1999

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