23.7.19

Mamma, crepo di fame ma gli austriaci mi proibiscono di dirlo. Leo Spitzer tra linguistica e storia (Ernesto Ferrero)



Nel settembre 1915 il ventisettenne Leo Spitzer, linguista e filologo viennese di buona famiglia ebraica, brillante allievo di Meyer-Lubke, e futuro maestro della critica stilistica, prende servizio presso l'Ufficio centrale della censura postale dell'esercito imperial-regio. Lo attende un compito gravoso: filtrare le lettere dei prigionieri italiani (a fine guerra saranno 600.000; solo dopo Caporetto ne erano arrivati 300.000). I quali possono chiedere a casa l'invio di pacchi alimentari, ma non abbandonarsi a «lamentele esagerate» sulla fame che li tormenta. In pratica, è vietato anche soltanto parlarne genericamente, e con il proseguire della guerra la situazione peggiora: la crisi economica falcidia le già magre razioni, i secondini non se la passano meglio dei prigionieri, ma dire «ho fame» non si può. La monarchia non vuole essere accusata di violare le convenzioni internazionali e soprattutto non vuole far conoscere le difficoltà dei rifornimenti alimentari di cui soffre il Paese, spia del collasso che finirà per farlo implodere.
Comincia una partita drammatica tra chi vuol sollecitare un aiuto (sono stimati in 100.000 i morti di stenti e privazioni) e un censore ferratissimo, che conosce a perfezione l'italiano, i suoi dialetti, perfino i suoi gerghi. Per sua e nostra fortuna Spitzer, prima di cassare quello che non può esser detto lo registra febbrilmente, consapevole della ricchezza espressiva dei materiali che si ritrova tra mano. I prigionieri sono poco o nulla alfabetizzati, scrivono come parlano, sgangheratamente, ma danno fondo alle risorse di un'inventiva ingegnosa, furbesca e commovente. Senza saperlo, usano tutti gli artifici della retorica, a partire dagli anagrammi: «fame» diventa «mefa» («La signora Mefa è qui da qualche tempo. Vedessi com'è deperita»). Ricorrono a errori voluti («fame sapere, fame stopiacere»), alle personificazioni («È morto con me il Capitano A. Petito fratello della signorina Magherina»; «Calogero Pititto s'ingrossa»; «Qui come prigioniero c'è l'amico Sepatislafam», «Saluti a Sepatiselfrec e Sestadecan»). Mandano saluti anche al signor Forneris e al signor Marocco (il pane, in gergo). Frequenti le allusioni alle malattie: «Ho una malaria di budele, mi manca anche la solita medicina che prendevo a casa»; «ho il vermo salutare»; «tengo la malatia della febbre mangina». Un milanese lamenta una fortissima tosse, da curare con quelle «caramelle che fa el prestinè, te capì?». C'è chi parla di «nostalgia gastrica», chi echeggia vecchi proverbi («Pancia che marmotta non si trova mai contenta»), chi si lamenta dei denti che arrugginiscono: «perche i miei denti i ciapo larugine».
La fame diventa la Signora, la vedova, la stria, la sozza, la fosca, la negra, la leggera, la carolina, la granda, la leona, la cagna, la lupa , il cammello («patisco un Camel della Madonna»), la morosa, l'amante austriaca, la Signora Slandrona, la signorina Sgaiusa, il signor Stecchetti, il tenente Spazzola («la spazzola suonava le sue note grigie»). I più frequentati sono lo zio Magno e l'Ugolino dantesco («È con me il signor Ugolino che tu non conosci ma che il babbo ricorda certamente»; lo si usa anche spezzato in due, zio Ugo e conte Lino).
Si inventano nuovi santi, come san Cripofan, crepo di fame, o degli agglomerati di parole come christochefamdelader, che nei campi di prigionia diventano popolari. Ma non c'è solo l'urgenza drammatica di comunicare. Chi scrive può arrivare a concedersi dei giochi linguistici (Kriegsgefangen, prigioniero di guerra, diventa Cristochefame), o addirittura irridere direttamente gli occhiuti censori. I più colti citano l'opera («Ciò che spedisce all'Università Bocconi manca, di conseguenza se sifula l'Aida»). Sino al più amaro dei paradossi: «Se è vero che l'aver apetito è segno di buona salute, siamo sanissimi sino a morire di salute».
C'è chi parla di "nostalgia gastrica", e chi cita l'amico "conte Ugolino"
Da questi formidabili giacimenti di trovate ingenue e accorate, di una loro astuzia bertoldesca, Spitzer ha ricavato ben tre poderose ricerche: La lingua italiana del dialogo (1922, tradotto da Il Saggiatore nel 2007), Lettere di prigionieri italiani 1915-1918 (1921) tradotto nel 2016 dal medesimo Il Saggiatore, che ora conclude il cosiddetto «trittico italiano» con Perifrasi del concetto di fame. La lingua segreta dei prigionieri italiani nella Grande Guerra, apparso nel 1920, ma non ancora tradotto. L'ottima cura è di Claudia Caffi, l'impeccabile traduzione di Silvia Albesano, di Antonio Gibelli il saggio d'inquadramento storico sulle scritture della fame nella Grande Guerra. Un'impresa ammirevole, che investe molti ambiti di ricerca, e di cui bisogna dare grande merito al coraggio e alla lungimiranza dell'editore.
A Spitzer interessava cogliere l'anima di un popolo proprio nel farsi spontaneo e disordinato di un linguaggio naïf, costretto a lottare con una lingua nazionale sentita come estranea, la lingua odiosa della casta. A noi oggi questi ex-voto linguistici di miracoli presunti, insieme colorati e strazianti, sembrano anticipare i linguaggi casual dei social, in cui parlato e scritto si confondono. Li assaporiamo con un retrogusto un po' amaro: vero che il grande linguista è stato un pioniere degli studi sull'italiano «basso» e popolare, ma al di là di una generica simpatia per questi italiani lamentosi e furbacchioni, i suoi doveri di suddito leale e i suoi piaceri di ricercatore goloso hanno finito per prevalere sull'umana pietà dovuta ai prigionieri. A concedergli le attenuanti generiche, la considerazione che per una bizzarra eterogenesi dei fini il suo lavoro di censore troppo bravo ha finito per restituire le vittime al loro ruolo di testimoni e attori.


Tuttolibri - La Stampa, 20 luglio 2019

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