9.7.19

Ritratti. Il sociologo liberale che piaceva tanto a Occhetto. Dahrendorf a dieci anni dalla morte (Jacopo Rosatelli)


In una scena di Mario, Maria e Mario, film che Ettore Scola dedica ai travagli umani e politici dei militanti del Pci di fronte alla svolta della Bolognina, appare un dettaglio rivelatore: uno dei personaggi tiene sul comodino Il conflitto sociale della modernità, libro di Ralf Dahrendorf uscito presso Laterza (suo editore italiano) in quel fatidico ’89.
Scola non aveva scelto a caso: se c’è un intellettuale che accompagna da vicino e ispira i fautori dello scioglimento e trasformazione del più grande partito comunista d’Occidente, è proprio il sociologo liberale, direttore della London School of Economics nel decennio ’74-’84, poi Warden a Oxford, noto in Italia soprattutto attraverso i suoi editoriali su “Repubblica”. Sarà lui stesso, nei Diari europei (1996), a definire «di simpatia e stretta familiarità» i suoi rapporti con il neonato Pds.
In Dahrendorf, di cui ricorrono il 17 giugno i dieci anni dalla scomparsa, il gruppo dirigente guidato da Achille Occhetto ritiene di trovare gli strumenti teorici per definire il profilo del nuovo «moderno partito riformatore»: dalla classe operaia si passa alla «cittadinanza», dalle contraddizioni economiche alla grammatica dei diritti, dall’alternativa di sistema alla scoperta della democrazia dell’alternanza. Ma non solo.
Il pensatore nato nel ’29 nella rossa Amburgo, a fine anni Ottanta cittadino britannico e successivamente membro della camera dei Lord, serve ai fautori della svolta soprattutto perché proclama – proprio lui, figlio di un deputato della Spd perseguitato dal nazismo – la «fine del secolo socialdemocratico»: le principali tradizioni del movimento operaio sono entrambe arrivate al capolinea. E il Pds si propone come un novum che vuole spingersi oltre le identità del passato: non si lascia il comunismo per ricucire lo strappo di Livorno e «ritornare» socialisti, come avrebbero voluto i miglioristi di Giorgio Napolitano, ma per approdare su inesplorati (e fantomatici) lidi di «sinistra democratica».
Si farebbe torto a Dahrendorf, però, se si imputassero a lui le responsabilità della deriva che il Pds e le sue successive trasformazioni avrebbero conosciuto nei tre decenni successivi. La fortuna del sociologo anglo-tedesco presso il gruppo dirigente della Bolognina resta un fenomeno legato alla congiuntura dell’Ottantanove, non prosegue oltre. La disponibilità all’ascolto del suo punto di vista viene meno quando, dalla metà degli anni Novanta, il Pds di Massimo D’Alema assume altri numi tutelari, come il cantore della «terza via» Anthony Giddens, intellettuale di riferimento del nuovo corso laburista di Tony Blair e della sua variante tedesca, quella di Gerhard Schröder. Dahrendorf disturba le rappresentazioni apologetiche delle magnifiche sorti e progressive della globalizzazione, dell’integrazione europea, del «riformismo» di quello che fu celebrato come «Ulivo mondiale». Mentre nelle due sponde dell’Atlantico la parola d’ordine è liberalizzare, proprio un autentico liberale come Dahrendorf mette in guardia sugli effetti collaterali della sbornia pseudo-innovatrice dei «socialdemocratici».
Nel decennio da Quadrare il cerchio (’95) a La società riaperta (2005), avverte sui rischi connessi all’emergere della nuova «classe globale» che governa l’economia dei flussi, una classe per la quale «è naturale tentare di sfuggire alle istituzioni tradizionali della democrazia», ancorate ai luoghi. Un potere globale che non preoccupa Blair e compagni, che, al contrario, prosperano grazie ai rapporti che con esso intrattengono, infischiandone delle lacerazioni nel tessuto sociale e delle nuove esclusioni. Per affrontare le quali i laburisti della terza via brevettano il workfare (tuttora assai in voga, vedi il cosiddetto reddito di cittadinanza), condizionando l’aiuto a prestazioni «socialmente utili»: una bestemmia per Dahrendorf, perché «l’obbligo del lavoro è, come tutti gli obblighi, un passo verso la non-libertà». Il secondo punto dolente, la crisi delle istituzioni democratiche, alimentata da partiti ormai macchine elettorali al servizio dei leader, prigionieri di un «presentismo» senza orizzonte ideale. E poi l’Unione europea, guardata da Dahrendorf con gli occhi dell’«europeista scettico» (da non confondere con l’euroscettico), «che è allarmato dalla frattura esistente fra le intenzioni e la realtà»: l’edificio comunitario soffre di grave deficit democratico, «il 'nucleo duro' spaccia i propri interessi per quelli europei», l’economia senza politica (e politiche sociali) rischia di far crollare tutto.
Nulla di rivoluzionario, certo, forse persino «insipido» come ebbe a dire di lui Mario Tronti. Eppure, se nei due decenni della globalizzazione triumphans la sinistra «riformista» italiana (ed europea) avesse continuato a leggere Dahrendorf preferendolo a Giddens, avrebbe forse combinato qualche guaio in meno.
Invece di aderire a narrazioni irenistiche, si sarebbe accorta che persino assumendo un punto di vista liberale si può riconoscere il conflitto sociale come potenziale di progresso di fronte alla «minaccia per la libertà» rappresentata dalla diseguaglianza «insopportabile», «quando i privilegiati possono negare i diritti di partecipazione degli svantaggiati» (Libertà attiva, 2003).
Di fronte alla quale, già a inizio Duemila, il sociologo individua un solo rimedio: «un livello di base delle condizioni di vita, forse un reddito minimo garantito».

“il manifesto”, 15 giugno 2019

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