13.8.19

Ecologie del passato. Invenzioni e stratagemmi antichi per risolvere i problemi dell’abitare (Simone Gozzano)

Costruzioni biologiche antiche. Un "nuraghe" di Barumini (foto R. Sigismondi)

Le tribù indiane che, nel 1200 circa, decisero di insediarsi nei territori di Mesa Verde, in Colorado (Stati Uniti), non potevano certo immaginare di aver aperto la strada a una tecnica di costruzione architettonica dal nome affascinante. Eppure è così. La vicenda inizia, in un certo senso, con l’umana esigenza di vivere a temperature moderate e la tecnica si chiama “architettura bioclimatica”. E gli indiani?
Mesa Verde è un’enorme sgrottamento, una frattura orizzontale in una parete di calcare verticalissimo. Una specie di rientranza naturale di notevoli proporzioni che guarda a sud. All’interno di questa spaccatura, gli indiani Anasazi costruirono il loro villaggio. Abitazioni realizzate in pietra a secco e depositi di granaglie, viottoli che serpeggiano e salgono in mezzo a questi piccoli parallelepipedi di roccia e grandi cisterne per l’acqua, il tutto affastellato come in un mosaico tridimensionale. In effetti la grande roccia offre un riparo particolarmente fortunato.
Durante l’inverno il sole, basso sull’orizzonte, illumina per molte ore al giorno le piccole costruzioni incastrate a mezza parete. La forma del “guscio” roccioso trattiene il calore per rilasciarlo, lentamente, nel corso della notte. D’estate invece, con il sole alto, la grande parete sovrastante, con l'allungarsi della sua ombra, difende le casette indiane da un attacco solare diretto e le abitazioni risultano più fresche. Completa il tutto un sistema di circolazione dell’aria assolutamente naturale. Il trucco “bioclimatico” di Mesa Verde è tutto qui, ma vale la prima pagina nelle citazioni storiche. L’insediamento indiano nel Colorado, tuttavia, è solo il primo capitolo di una ipotetica ricostruzione delle vicende bioclimatiche nell’architettura umana. Qualche anno fa, l’Enea realizzò una mostra sulle tecniche e la storia di questa architettura, e di casi ne vennero fuori parecchi. Dalle terme di Ostia antica a Ghardaia, in Algeria, fino alle Logge Vaticane di Raffaello, che utilizzò lo stesso principio di Mesa Verde, gli esempi di soluzioni architettoniche che sfruttano le caratteristiche climatiche e naturali del territorio come parti integranti nella realizzazione di edifici o insediamenti abitativi, costituiscono una vera e propria collezione delle meraviglie. Ma la serie è ricca anche di casi semplici, quotidiani.
«I principi generali sono piuttosto elementari» dice Livio Dalla Ragione, direttore del Museo della civiltà contadina di Città di Castello. «Le case più importanti sfruttavano grandi mura al cui interno veniva formata un’intercapedine con cenere e materiale di riempimento. In questa maniera risultavano più isolate rispetto all’esterno, e l’umidità non filtrava. Ma anche nelle case povere si sfruttavano soluzioni in qualche modo analoghe. Ad esempio la calce e le paste che venivano stese sui muri erano poco igroscopiche. Questo significa che si asciugavano rapidamente. L’uso del cemento, che invece assorbe molta umidità per ‘trasportarla’ all’interno della casa, ha creato un problema che per molti secoli non si era presentato». 
Ma di soluzioni “povere ma efficaci” solo nel nostro paese se ne trovano a decine. Ci sono i trulli, le piccole costruzioni di pietra della Puglia, che garantiscono una protezione efficacissima dal caldo estivo, e i dammusi, loro cugini realizzati sull’isola di Pantelleria, mentre al nord, nelle malghe delle vallate dolomitiche, il “larin”, il focolare, è il nucleo attorno al quale si costruisce la casa. E ancora le “case torri” dell’Abruzzo, dove la stalla è al piano terreno e sopra, divisa solo da un doppio solaio in legno, c’è la cucina che sfrutta il calore che sale. Sopra la cucina, infine, la stanza da letto. Le ‘astuzie’ bioclimatiche però, non facevano parte solo dell’inventiva personale, ma avevano radici anche nel gruppo e nella cittadina.
Molti insediamenti di epoca medioevale, mostrano la tipica soluzione delle case a “schiera”. La funzione, com’è noto, era doppia: realizzare una fortificazione difensiva e creare una barriera contro il vento e, in certe zone, il freddo. Se la schiera era a nord poi, le finestre dovevano avere piccole dimensioni eccetto, se mai, quelle superiori che potevano meglio sfruttare l’irraggiamento solare. Legata al sole c’è, naturalmente, la questione dell’illuminazione. Anche in questo caso esistono da tempo ingegnose soluzioni.
Il sociologo e urbanista Lewis Mumford, ad esempio, descrivendo un’annunciazione cinquecentesca ad opera di Joos van Cleve, nota che le finestre dell’epoca erano divise in tre pannelli. Solo quello superiore era fisso e di vetro, mentre i due inferiori erano costituiti da persianette apribili. Questa struttura venne sostituita, nel tempo, dalla finestra a tutto vetro sempre chiusa che rappresentò, a giudizio di Mumford, un passo indietro. Il vecchio modello infatti, oltre a garantire una continua illuminazione anche in caso di cattivo tempo, consentiva, a persiane aperte, sia il passaggio dei raggi ultravioletti per uccidere i batteri che una maggiore ventilazione della casa. Circolazione dell’aria, un’altro dei problemi tipici dell’architettura bioclimatica.
Una delle tecniche più affascinanti è quella sviluppata nella costruzione delle Ville di Costozza, nei pressi di Vicenza. Realizzate a partire dal 1550, queste residenze sfruttano come sistema di raffreddamento e circolazione dell'aria la presenza di grotte e scavi, parzialmente artificiali, esistenti qualche metro al di sotto della superficie. Queste cavità, chiamate “covoli”, hanno diversi ingressi. Per ragioni fisiche, l’aria fredda entra dagli ingressi alti e, percorrendo vie sotterranee, scende fino ai pavimenti sottostanti le ville. Qui, attraverso una serie di grate, le correnti ritornano in superficie, regolando naturalmente la temperatura delle ville vicentine. Tuttavia la capacità di sfruttare le correnti d’aria non è appannaggio “dell’architettura bioclimatica” del Rinascimento.
Nelle terme di Ostia era stato sviluppato un sistema di circolazione dell’aria che permetteva di riscaldare i diversi ambienti proprio nelle ore di punta. Gli edifici terminali avevano grosse aperture che guardavano ovest. Queste consentivano, attraverso l'ingresso di aria riscaldata, di sfruttare al meglio l’irraggiamento solare del pomeriggio, ora di massimo affollamento. Una volta messa in moto, questa circolazione facilitava anche la distribuzione del calore proveniente dal sistema di riscaldamento centralizzato dell epoca, la fornace, e diramato dall'ipocausto, una rete di condotte al di sotto dei pavimenti.
Dopo Ostia l’Iran, territorio ricco di trovate per lo sfruttamento dell’irrequietezza, ventosa, della natura. Vengono chiamate Torri del Vento. Sono grandi torri aperte sostenute da colonne allineate. Per mezzo di condotte coperte sono in contatto d’aria con le grandi residenze reali o con le moschee più importanti. Durante il giorno l’aria calda che si forma nelle stanze tende a scappare da questi enormi camini mentre, di notte, l'aria fredda viene riscaldata dall’inerzia termica delle pareti e, al tempo stesso, spinge le sacche di aria calda verso il basso, riscaldando le zone abitate. Il tutto viene raffinato attraverso un complesso sistema di aperture e chiusure che consentono di scegliere se e quanto vento fare entrare e da quale, direzione. Un esempio di soluzione adatta per un luogo.
Espedienti come quelli adottati nel caso delle Torri del Vento, ma lo stesso vale per i trulli e i dammusi, mettono in luce una concezione diversa della casa, intesa più come organismo da adattare all’ambiente nel quale “vive” che non come barriera difensiva per salvaguardarsi da un territorio nemico. Un modo di concepire la casa, questo, che venne definito “architettura organica” e che con l’affermarsi delle tecniche bioclimatiche sembra essere meritorio di una riscoperta. Riscoperta dunque, non scoperta.

"Arancia Blu", Anno II n.6, Giugno 1991

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