30.8.19

Ipocrisie sulla mobilità sociale. Riflessioni intorno a un provocatorio articolo di Martin Wolf



Dalla sintesi che ne ha fatto per la rassegna stampa del Corriere Luca Angelini recupero le tesi principali di un articolo di Martin Wolf sul “Financial Times”, dell'inizio del maggio scorso (2019), che confuta le ipocrisie che circondano il tema della mobilità sociale.
La prima è non ammettere che «il principale ostacolo alla mobilità sociale è la famiglia. La gente non investe una gran mole di tempo e risorse nei propri figli per vederli fallire. Chi ha le possibilità materiali, sociali e intellettuali per evitare tale fallimento, le userà».
La seconda ipocrisia è che, quando invochiamo più mobilità, intendiamo quella verso l’alto. Ma, come ha sottolineato anche un recente rapporto della Social Mobility Commission britannica, se la struttura economica della società non cambia, la mobilità verso l’alto si può avere soltanto se ce n’è una uguale e contraria verso il basso.
Tutto ciò deve, per Wolf, farci concentrare sull’economia come fattore chiave della mobilità. Ad esempio, la percentuale di lavoratori maschi salariati in ruoli manageriali o professionali era dell’11% nel 1951, è salita al 25% nel 1971, al 35% nel 1991 e al 40% nel 2011. La struttura economica ha ampliato (ma con incrementi percentuali via via minori) i posti in alto nella scala sociale, generando molta mobilità «gradita» e poca mobilità «sgradita».
«L’istruzione — avverte Wolf — ha avuto poco a che fare con tutto ciò. Si otteneva una promozione sociale anche senza il “pezzo di carta”. Non è che all’epoca la società fosse più aperta, è che l’economia veniva maggiormente in aiuto». E se i figli della working class hanno oggi più possibilità di ottenere un titolo di studio, ne hanno meno di ottenere, attraverso quello, un lavoro qualificato e ben pagato, perché «i genitori delle classi più in alto aiuteranno sempre i propri figli a tagliarli fuori».
Wolf sembra contestare anche le teorie assai diffuse, dall'OCSE ai dirigenti pubblici italiani per non dire dei politici “luogocomunisti”, che, imputando all'inefficienza dei sistemi scolastici pubblici la riduzione progressiva della mobilità sociale, ne affidano alla loro riqualificazione, anche nel senso dell'equità, la ripresa. Wolf non è affatto sicuro che più istruzione e competenza aiutlno l’economia a generare più «posti al sole»: «Se, come qualcuno predice, l’intelligenza artificiale demolirà molti lavori professionali, la mobilità verso il basso supererà quella verso l’alto. Le conseguenze politiche sarebbero devastanti».
Concludo io che una scuola pubblica qualificata e di massa – come si diceva una volta - può aiutare a modificare la situazione di stagnazione sociale, ma occorrono anche dei cambiamenti profondi nella struttura sociale e produttiva, la cui leva non può essere che il conflitto sociale, la lotta di classe si diceva una volta. È un caso che gli anni di maggiore incremento della mobilità sociale verso l'alto siano quelli in cui maggiore era la forza del movimento operaio organizzato e dei partiti che ad esso si collegavano?


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