11.8.19

La rabbia, il canto e il sorriso del popolo (S. L L.)


Sto aggiustando la traduzione di una poesia d'amore dell'uruaguagio Mario Benedetti, che voglio "postare" nel blog che alimento e si intitola Bienvenida (Benvenuta). C'è un passaggio che fa "sonrìe y rabia y canta como pueblo": "Rabiar" vuol dire "arrabbiarsi, infuriarsi, sbraitare, protestare ecc". Cercherò la traduzione più opportuna, ma voglio qui comunicare un pensiero laterale, una riflessione amara.
Nel nostro povero paese il popolo continua ad urlare di rabbia, ma non canta e non sorride. Sì è incupito ed incattivito e perciò non sa più né cantare né sorridere. Piuttosto, spinto ad odiare, odia. Odia i migranti, gli stranieri, per esempio, e spesso aggiunge all'odio il pregiudizio di razza. Odia, spesso ancora di più, i politici, i sindacalisti, gli intellettuali di sinistra, nella sua rappresentazione tutta gente che ha la vita comoda tra agi, viaggi ed amori, e niente sa della fatica e della guerra quotidiana del guadagnare. Alla base di quest'odio c'è la disperazione, nel senso proprio della mancanza di speranza, la convinzione che in pochi ce la fanno ("uno su mille" dice la canzone). Tutto il contrario dei tempi in cui molti popolani pensavano che "il popolo unito non sarà mai vinto" e che sulla forza dei popolani che facevano massa fondavano la speranza di un avvenire migliore per se stessi e per tutti gli altri.
Questa mi pare, almeno qui da noi, la situazione. C'è chi la riconduce allo sviluppo per certi aspetti mostruoso di un capitalismo che ha saputo spezzare solidarietà, cancellare diritti e tutele, chi la attribuisce agli imprenditori dell'odio che, soprattutto in politica, lo alimentano per ricavarne potere e ricchezza, chi la fa risalire alle doppiezze e ai cedimenti dei politici e dei sindacalisti del socialismo, agli apparati delle sinistre popolari, i cui esponenti nell'opinione di tantissimi popolani avrebbero strappato per se agi e privilegi senza per nulla curarsi delle sofferenze dei ceti più deboli trascinati nella dipendenza e nell'incertezza, lasciati senza speranza.
Non credo che a questo punto conti granché stabilire quale di questi processi sia stato più decisivo. Certo mi pare che dei popoli che odiano e che si odiano non portano bene a sè stessi e a tutti gli altri. Le loro urla senza canti e sorrisi sanno di barbarie, di regressione.
Chi di ciò è consapevole, se non è impedito dalla sferza del bisogno, potrebbe e secondo me dovrebbe operare come gli apostoli del socialismo ottocentesco: non dedicarsi alla politica o al sindacalismo come una carriera, ma lavorare a rendere consapevoli gruppi sempre più ampi del popolo lavoratore, sfruttato e privato di strumenti di conoscenza e di potere. In tutti i modi possibile, dal doposcuola alla costruzione di battaglie sociali sui temi del lavoro, della salute, del sapere, dell'assistenza, dell'ambiente, del territorio ecc: campagne universali per diritti universali come fu al tempo quella delle otto ore e contro sciagure universali concrete o potenziali, mutamenti climatici, disastri ambientali, guerre, corse al riarmo ecc; e anche lotte locali di città, territori, gruppi anche piccoli. Bisogna riconquistare e far riconquistare la coscienza che "uniti siamo forti", che ci sono ottime ragioni per sperare, lottando con rabbia certo, ma anche cantando e sorridendo. Il sole del socialismo o della socialità o comunque lo si voglia chiamare, può continuare a rischiarare l'avvenire, che resta luminoso, nonostante tutte le tortuosità del cammino, nonostante le sconfitte e gli arretramenti del popolo lavoratore.

stato fb 7 agosto 2019

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