10.8.19

Pablo Neruda: Soneto XCIV (da “Cien sonetos de amor”). Con il commento di Antonio Skármeta

Pablo Neruda con l'ultima moglie matilde Urrutia

Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
da svegliare la furia del pallido e del freddo,
da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.

Non voglio che vacillino il tuo riso e i tuoi passi,
non voglio che muoia la mia eredità d'allegria,
non bussare al mio petto, non ci sono.
Vivi nella mia assenza come in una casa.

È una casa così grande l'assenza
che ci entrerai attraversando i muri
e appenderai i quadri nell’aria.

È una casa così trasparente l'assenza
che io senza vita ti vedrò vivere
e se soffri, amore mio, io morirò di nuovo. 

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Si muero sobrevíveme con tanta fuerza pura
que despiertes la furia del pálido y del frío,
de sur a sur levanta tus ojos indelebles,
de sol a sol que suene tu boca de guitarra.

No quiero que vacilen tu risa ni tus pasos,
no quiero que se muera mi herencia de alegría,
no llames a mi pecho, estoy ausente.
Vive en mi ausencia como en una casa.

Es una casa tan grande la ausencia
que pasarás en ella a través de los muros
y colgarás los cuadros en el aire.

Es una casa tan transparente la ausencia
que yo sin vida te veré vivir
y si sufres, mi amor, me moriré otra vez.

dal sito “Poesia en español” ( https://www.poesi.as/ ) - Trad. S.L.L.

Arriva la gioia (Antonio Skármeta)
Matilde Urrutia con Pablo Neruda
Benché quasi tutte le poesie di Cento sonetti d’amore siano gioielli delicati offerti alla riflessione, alla biografia e alla celebrazione di Matilde, la forma elegante del sonetto si rivela molto adatta al tono di questo amore maturo che in precedenza aveva giocato con il fuoco vivo nei Versi del Capitano.
Pablo e Matilde sono adesso padroni assoluti del loro destino e il libro traccia una sorta di bilancio. Senza omettere i momenti amari che la coppia ha vissuto, il passato si giustifica attraverso l’amore che è stato inevitabile, e il poeta argomenta la propria difesa dalle aggressioni proclamandosi un uomo buono («Io ripagai la viltà con colombe»), ben disposto, ispirato dalla visione effusiva di un amore che si farà in altre bocche bacio e materia, il poeta affronta un futuro che, per quanto si prefiguri glorioso, dovrà ormai fare i conti con la morte.
Neruda vede in Matilde non solo colei che gli sopravvivrà e porterà avanti l’amore in completa solitudine, ma anche la donna che deve perpetuare l’universo. Se si presagisce la morte, è ora di fare testamento: per questo i Cento sonetti d’amore assumono una grande importanza, perché è il poeta in persona che seleziona i beni da lasciare, che sono, in sostanza, i suoi sentimenti e la sua lotta. […]
Se tutti i sonetti sono belli, in questa mia antologia personale scelgo il XCIV perché lo sentii recitare da Matilde in un momento di particolare intensità. Era il 1983, e la repressione di Pinochet era ancora in atto. Non c’era tregua per il movimento democratico, che avanzava a passi da gigante.
Dovevamo commemorare i dieci anni dalla scomparsa del poeta e volevamo farlo con una manifestazione di massa. Il suo nome era un vessillo comune per molte persone che potevano anche pensarla diversamente ma che si ritrovavano unite come un sol corpo e una sola anima contro la dittatura.
Non si potè evitare l’evento «culturale», che si celebrò al Caupolicàn, un enorme stadio circolare che si riempì dei polmoni di migliaia di partecipanti, i quali, malgrado fosse stata imposta una certa cautela perché l’omaggio potesse svolgersi sino alla fine, non smisero un attimo di gridare all’unisono «assassini, assassini!» agli scagnozzi di Pinochet.
L’ultima a prendere la parola fu Matilde che, nell’atteggiamento fiero della vedova, con naturalezza, interpretò come un testamento di lotta le parole che il sonetto XCIV le aveva lasciato. Disse: «Io sono stata e sono la compagna di Pablo». E dopo una breve introduzione andò al nocciolo del suo discorso:
Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
da svegliare la furia del pallido e del freddo...
E il climax del finale mise la gente, mortificata da una dittatura che pensava invincibile, nello stato d’animo che nel 1988 portò i democratici cileni a sconfiggere Pinochet con una campagna né cupa né lacrimosa, ma libera da rancori e di buon auspicio per il futuro: «Lui amava la gioia. Per questo, io non ho nessuna intenzione di chiedere, adesso, un minuto di silenzio per ricordarlo. No! Vi chiederò piuttosto un minuto di gioia, di baccano e di applausi fragorosi!»
Il momento è documentato in un vibrante filmato del regista Carlos Flores, e ogni volta che lo vedo mi commuovo come allora.
Molte persone, non solo i cinici e gli scettici, affermano che la poesia non serve a niente, e io, umilmente, cerco di correggerle dicendo che la poesia non serve «quasi» a niente.
La miglior dimostrazione? Il 5 ottobre 1988, contro tutti i pronostici che davano il dittatore Pinochet come vincitore del plebiscito destinato a proclamarlo presidente del Cile a vita, la maggioranza della gente votò contro di lui e lo estromise dal governo.
L’intensa campagna elettorale che aveva portato a questo trionfo aveva uno slogan: Cile, arriva la gioia. 

In La magia in azione, Guanda 2006 

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