25.8.09

Federalismo. La parola e la cosa. ( maggio 2001)

Ripubblico un mio vecchio articolo di "micropolis". Fu steso dopo le modifiche all'articolo 117 della Costituzione approvate in fretta e in furia dal centro sinistra alla vigilia di elezioni politiche che avrebbero riportato al potere Berlusconi. Non si tratta però di un commento al nuovo assetto costituzionale, per il quale "micropolis" si affidò all'acume e alla competenza del costituzionalista Mauro Volpi, oggi membro del Consiglio superiore della Magistratura. E' invece una ricognizione storico-concettuale sul tema del federalismo, che riservò ai lettori d'allora e credo possa riservare ancor oggi qualche sorpresa. Penso che il pezzo possa essere utile nel dibattito attualmente dominato dall'iniziativa leghista, anche se oggi nella chiusa politica mi porrei in termini più problematici. (S.L.L.)
Un Bossi contro il federalismo

Gli ulivisti più sagaci usano il vocabolo "federalismo" con misura ed hanno saggiamente evitato di introdurlo nel dettato costituzionale. L'asse concettuale della recente legge di modifica riecheggia tuttavia Hamilton e Jefferson, padri nobili del federalismo americano, nel metodo del "residuo", che limita rigorosamente i poteri dello "stato federale" e attribuisce agli "stati federati" tutti gli altri. Il criterio è seguito in particolare nella formulazione dell'art.117, ma è dimostrato che c'è qualche inghippo. Sulle sbornie federaliste circola un'obiezione sensata: gli stati presi a modello si sono prodotti per aggregazione, da un rafforzamento dei vincoli unitari, non da un allentamento. E' vero, ma non bisogna pensare ad una via cosparsa di rose: il federalismo realmente esistente non è stato quasi mai l'approdo di un processo lineare. Negli USA, per esempio, l'equilibrio tra poteri statali e federali è anche il frutto della più cruenta guerra dell'Ottocento. In Germania i Länder sono un'antica eredità, ma da Bismark ad Hitler le autonomie avevano subito colpi durissimi. Pertanto anche gli storici che iscrivono in una tradizione autoctona il federalismo del Grundgesetz (la Legge Fondamentale del 1949), riconoscono come decisive le minacce di disintegrazione formulate dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale, tese ad impedire la rinascita di uno stato tedesco centralizzato.


Le parole nella storia

La semantica del lemma "federalismo" ha subito di recente un'evoluzione, registrata dai vocabolari. Fino agli anni Ottanta prevale la definizione di "dottrina che tende alla federazione di più stati", nel decennio successivo quella di "tendenza orientata verso la costituzione di stati federali piuttosto che di stati unitari accentrati". Non è questione di sfumature: nel primo caso il federalismo tende all'unità, nel secondo vi si oppone. Questa ambivalenza è originaria ed ha radici filosofico-politiche. Gli scritti federalisti di Kant ipotizzavano un potere universale, limitante la sovranità degli stati, come il più idoneo a garantire "la pace perpetua"; gli ispiratori della costituzione degli Usa progettavano la realizzazione immediata nel Nuovo Mondo di un'organizzazione politica inedita.

Nel 1792 l'Assemblea Legislativa francese inserì Hamilton e il suo collaboratore Madison nella lista ufficiale dei benefattori dell'umanità, ma la simpatia per gli Stati Uniti restava assai vaga ed il solo federalismo ammesso per la Francia rivoluzionaria riguardava una futura integrazione tra le nazioni europee, senza che peraltro fosse chiara la distinzione, stabilita dagli autori americani, tra la confederazione, in cui ogni stato ha il diritto di veto, e la federazione, in cui i poteri sono ripartiti tra stati locali e stato federale. Di fatto, nel 1789, i costituenti erano stati quasi tutti d'accordo con Sieyes, che proclamava: "La Francia non dev'essere uno stato federale, fonte di caos ed anarchia". Una sorta di federalismo regionalista comparve in seguito tra i girondini e divenne, ai tempi del Terrore, un capo d'accusa. Nel processo a Brissot una sua citazione della costituzione americana fu giudicata dal tribunale come un'implicita confessione della volontà di federalizzare la Francia. In ogni caso, dopo il Termidoro, i girondini superstiti e vincenti non si allontanarono dal centralismo. In Italia la prima attestazione del termine "federalismo", nel significato di aggregazione tra stati, risale al 1793, sulla gazzetta veneta “Nuovo Postiglione”, ma, dopo la vittoriosa campagna napoleonica, il dibattito sul futuro costituzionale della penisola ne rivela l'ambiguità. Nel 1797 nell'opuscolo Del vero federalismo, il giacobino piemontese Ranza spiega come lo stato federale possa essere benefico in Italia, ove la secolare divisione rende impraticabile per l'immediato "una rigenerazione politica in un solo stato con una sola costituzione", ma distruttivo in Francia, ove il corpo della nazione è da tempo uno ed indiviso. L'anno dopo il Vocabolario democratico del Compagnoni attribuisce al lemma "federalismo" il valore prevalente e positivo di graduale unificazione; ma nel febbraio del 1799, Angelo Bossi, Segretario del Dipartimento Trasimeno nella Repubblica Romana, salutando a Perugia l'anniversario della caduta del regime papalino, condanna "l'assurdo sistema del Federalismo che divide i Popoli e distrugge il contratto sociale".


Cantonate

Nel Risorgimento il federalismo neoguelfo e moderato di Gioberti e quello laico-democratico di Cattaneo riescono entrambi sconfitti. Dopo l'unità sono gli anarchici a proclamarsi federalisti: ad ogni potere politico oppongono la libera associazione degli individui nelle comunità di base e delle comunità in federazioni sempre più ampie, fino all'utopia della federazione universale. Nel 1873, in Spagna, fu proclamata la repubblica. Fu eletto presidente il catalano Py y Margall, capo del partito "federalista". Influenzato da Proudhon, aspirava a spezzare la forza dello stato erigendo ad entità politiche autonome le regioni storiche e i municipi. Lo stato poteva rinascere solo dopo, su basi pattizie ("senza patto non è federalismo, ma centralismo"). L'internazionale anarchica investì sulla Spagna entusiasmo e propaganda: alcuni italiani vi andarono a combattere a sostegno della rivoluzione. La caduta di Py e, poco dopo, della repubblica fu paradossalmente favorita dalle ribellioni "cantonaliste" appoggiate dagli anarchici che reclamavano l'indipendenza dei piccoli territori rispetto alle regioni. I cavalieri erranti dell'Ideale cantavano "nostra patria è il mondo intero", ma combattevano per l'indipendenza dei villaggi. Tra i due poli della contraddizione, la federazione universale e l'autogoverno locale, mancava la politica.

Mutatis mutandis è un vuoto che s'avverte anche oggi: il "movimento di Seattle" combatte le ineguaglianze della globalizzazione, ma finisce con il rivendicare piccoli spazi liberati (o ghetti?) per gruppi, corporazioni, territori.


Ventotene

Nel primo Novecento socialisti e democratici italiani difendono i municipi dalle ingerenze dei prefetti, braccio armato del governo centrale, ma non mostrano interesse per lo stato federale. Nella crisi del primo dopoguerra i popolari di Sturzo convertono il federalismo neoguelfo in una polemica autonomistica contro "la manomissione dei diritti degli enti locali" e "l'accentramento funzionale e burocratico".

Una traccia di federalismo si è rinvenuta anche nel Gramsci ordinovista, nello Stato Operaio dei Consigli; ma già allora, assai prima della teoria del partito come moderno Principe consegnata ai Quaderni, egli attribuiva a un'avanguardia rivoluzionaria centralizzata il compito di garantire l'unità proletaria contro ogni particolarismo territoriale o corporativo.

Sconfitto il fascismo, nella Costituente le sinistre e i democristiani convergono su una repubblica delle autonomie, basata sull'istituto regionale, ove sembrano comporsi le antiche divisioni tra unitari e federalisti; ma poi i governi centristi continuano a usare dei prefetti per imporre da Roma le scelte decisive e ritardano l'istituzione delle Regioni a Statuto Ordinario. Saranno costituite soltanto nel 1970, con il centro-sinistra.

Intanto, nel lessico politico, "federalismo" ha acquisito un diverso significato. Già durante la guerra, dal confino di Ventotene, il "manifesto" di Rossi e Spinelli indicava nella federazione europea la via per impedire nuovi più distruttivi conflitti. Più tardi Spinelli costituì un movimento federalista che, denunciando i limiti della comunità economica, promuoveva l'unità politica dell'Europa su basi federali. Un federalismo per unire, insomma, non per dividere. Fino all'arrivo dei “lumbard” fu l'unico federalismo attivo in Italia.


Le Strade del Re

In principio la Lega cresce sui rancori populisti contro Roma, i meridionali e il fisco, ma già nel 1989 si proclama federalista, cogliendo peraltro un problema reale: le resistenze "romane" contro le autonomie. I partiti "italiani" corrono ai ripari. Si presentano riforme in Parlamento e la Conferenza delle Regioni reclama competenze esclusive ed autonomia impositiva. Pudicamente i documenti del gennaio 1991 parlano di "nuovo regionalismo", ma il portavoce delle Regioni Boselli, presidente dell'Emilia-Romagna, non teme le parole:"Questo è il vero federalismo". Da allora il consumo di federalismo più o meno vero s'intreccia all'interminabile crisi di regime, legandosi a parole come "fiscale", "solidale", sussidiarietà", etc.. Tutti diventano federalisti, anche la destra di An. In verità il fascismo era statolatrico, il duce aveva origini giacobine e ambizioni bonapartiste, ma qualche precedente storico-ideologico alla conversione del partito di Fini si può ritrovare. Il ventennio è percorso carsicamente da un autonomismo notabilare fatto di tentazioni feudali, se non federali: i ras locali giurano fedeltà al capo, ma pretendono mano libera nelle territori. Il regime, del resto, feroce con le minoranze linguistiche di confine, valorizza le identità regionali nei sussidiari di stato, mentre le canzonette mettono in guardia contro i matrimoni interregionali ed suggeriscono di restare o di tornare nei luoghi d’origine (“Torna al tuo paesello ch’è tanto bello).

Dopo la Liberazione il localismo della destra riemerge al Sud, nel laurismo e nel milazzismo. Il "comandante" Lauro usa il folclore partenopeo per rivendicare a Napoli un ruolo di "zona franca", con sue proprie leggi. Sorgi Sicilia, l'inno del MSI isolano, fa da colonna sonora alla partecipazione ai governi Milazzo, appoggiati, in nome della "sicilianità", anche dal Pci (e, forse, dalla mafia). Il federalismo della destra postfascista e quella leghista non mancano peraltro di avi europei che autorizzano un vero e proprio apparentamento. Il nazionalismo integrale dell'Action Francaise di Maurras sovrapponeva al trittico Dio-Patria-Famiglia quello, oggi più fungibile, di Individuo-Regione-Nazione. Nel saggio La monarchia federalista si legge: "Una volta le città, il territorio, le province tenevano i cordoni della borsa e da essi dipendevano le sovvenzioni. Oggi tutto dipende dallo Stato. Dov'è la libertà? Dove sono la dignità e la forza? Dove il progresso? (...) Per ben organizzare la nazione noi vogliamo riportarla al Re; ma per non sprecare nulla, per utilizzare tutto nel miglior modo possibile, noi consigliamo l'autonomia dei poteri locali e professionali".

Proiettando questo sogno nel presente potremmo trovare a Roma Re Silvio, nei territori satrapi leghisti o anisti fedeli al monarca e blandamente controllati dalle assemblee, ovunque corporazioni potenti. Questo federalismo, limitato da un potere centrale forte e personalizzato, è del tutto compatibile con le pulsioni profonde di tutte le destre. Il contrasto potrebbe semmai nascere dalla ripartizione delle risorse, ma potrebbe essere risolto da un potere arbitrale autocratico e carismatico. In un discorso di Tremonti a un'assemblea di costruttori del Centro Italia parlava di grandi opere, indicava procedure spicciative. In un mese le Regioni propongono; in due mesi il Parlamento decide e legifera, tutto prevedendo. Senza controlli e intoppi da parte delle Regioni e delle autonomie locali, il governo centrale affida e l'appaltante realizza. Il federalismo è bello, ma le Strade devono essere del Re. (S.L.L.)

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micropolis, anno VII, n.5 maggio 2001Citazione

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