29.9.09

La libertà di stampa e la giustizia disuguale. Un minidossier

Questo post è un piccolo dossier. Dopo queste poche righe di introduzione troverete ampi stralci da tre pezzi dal "Corriere della sera".
Il primo è la lettera di un lettore, Luigi Ferrarella, pubblicata il 26 settembre contiene una denuncia e una proposta. Denuncia il massiccio ricorso "a infondate querele e maxirichieste di danni da parte di chi non rischia alcunché a farle". Propone di prevedere, se una causa risulti temeraria, un risarcimento al giornale da parte di chi l' ha promossa, ad esempio una percentuale del 10 per cento del risarcimento preteso.
Il secondo è un'intervista di Maria Antonietta Calabrò al segretario nazionale della Fnsi, il sindacato dei giornalisti, pubblicata il 27, che fa sua la proposta e vi aggiunge una specificazione.
Il terzo è un intervento di Milena Gabanelli, che racconta della sua esperienza di giornalista d'inchiesta e spiega come il problema più serio non sia l'alto risarcimento richiesto, ma le spese legali e la durata dei processi civili.
C'è ampia materia per riflettere. Io ne approfitto per una piccola provocazione. Quanto incide sulle nostre libertà, quella di stampa e tutte le altre, la lentezza e la macchinosità della giustizia civile? Quali interessi si frappongono a una riforma vera e radicale? Aspetto risposte. (S.L.L.)


Querele e intercettazioni

Perché la verità non diventi un lusso

I giornalisti che avvertono sempre maggiori ostacoli all'esercizio della libertà di stampa vengono bruscamente liquidati come diffamatori piagnucolanti, che prima devastano le vite altrui e poi pretendono immunità per non ripagare i danni alla reputazione delle persone e aziende che li querelano (nel penale) o chiedono ingenti risarcimenti (nel civile). Non è un caso. Sia perché per alcuni “cantori” della libertà di stampa è davvero così. Sia - soprattutto - perché è il prezzo, salato, che l' intera categoria paga per aver lasciato che dilagasse il contagio di prassi giornalistiche imprecise e superficiali, obliquamente omissive o dolosamente inveritiere, indulgenti verso lo “spaccio” di falsità in non sempre “modica quantità”, a volte sconfinanti nel manganello a mezzo stampa per colpire l' avversario politico o economico dell' editore. […..]

Ma ora anche le querele e le richieste di danni hanno perso il loro valore di verità. Sempre meno strumenti di ristoro della reputazione calpestata dall' errore colpevole o dal dolo scientifico del giornalista, le azioni legali diventano così tante e sono spesso talmente infondate da essere piuttosto brandite come uno strumento di intimidazione sul cronista (“anche se stavolta hai scritto giusto, attento a riscrivere la prossima volta”) e sull' editore, alle prese con rischi di risarcimenti e con spese di difesa tali da mettere in ginocchio il bilancio di un' azienda editoriale medio-piccola. Si dirà: c' è un giudice, e se il giornalista sbaglia, è giusto che vada incontro a pena pecuniaria, reclusione, riparazione pecuniaria, risarcimento dei danni morali e patrimoniali, pagamento delle spese di giudizio. Certo. Solo che la partita, da quando è divenuto massiccio l' indiscriminato ricorso alle azioni legali, non è più ad armi pari. Non solo perché il giornalista, per non essere condannato, deve dimostrare non soltanto che ha scritto il vero, ma anche che esisteva un interesse pubblico a conoscerlo, e che la forma non era inutilmente aggressiva. Non solo perché, se diffonde dati personali veri ma senza i quali la notizia sarebbe stata ugualmente completa ed esauriente, incorre nei fulmini del Garante della privacy, del giudice penale, del giudice civile, dell' Ordine. Non solo perché, quando pubblica notizie vere tratte da atti giudiziari non più segreti in quanto già noti alle parti, è schiacciato nella tenaglia per cui se le riporta con precisione letterale si vede denunciare per aver commesso uno specifico reato, mentre se si limita a riassumerle si sente accusare di non essere stato abbastanza preciso da evitare la diffamazione. A truccare la partita, invece, non è l' azione legale in sé, ma il fatto che chi la intenta contro il giornalista, a differenza sua, non rischi mai e non paghi alcunché, nemmeno se il giudice accerta che le doglianze erano totalmente pretestuose: nel civile il giornalista recupera al più le spese, nel penale l' assoluzione “perché il fatto non costituisce reato” gli impedisce di denunciare per calunnia il querelante e ottenere i danni. Il sacrosanto diritto dei diffamati (quando siano davvero tali) di rivalersi sul giornalista non deve essere intaccato. Ma forse una modifica normativa potrebbe conciliarlo con la non compressione dell' attività giornalistica: querela pure chi vuoi e per quello che vuoi, ma se poi la causa risulta del tutto campata per aria, allora paghi al giornale denunciato almeno una minima percentuale (anche solo il 10%?) delle maxicifre che pretendevi come risarcimento. Liberi di scrivere, liberi di querelare. Ma responsabili entrambi. Nella trasparenza. Il contrario del terreno su cui muove il disegno di legge sulle intercettazioni che, dietro il pretesto della tutela della privacy, estende l' area del segreto sugli atti d' indagine, e di ogni “pubblicazione arbitraria” (da 2.500 a 5.000 euro per il giornalista) fa poi rispondere anche l' editore a titolo di responsabilità amministrativa della persona giuridica per i reati commessi dai dipendenti nell' interesse aziendale (legge 231/2001). Tradotto? A ogni dettagliata pubblicazione di un atto vero, non più coperto da segreto investigativo e riportato in maniera corretta, l' editore pagherà da un minimo di 25 mila 800 a un massimo di 465 mila euro per le testate nazionali. Il modo migliore per fare entrare «il padrone in redazione», visto che a quel punto la decisione editoriale sul «se» e «come» pubblicare una notizia sfuggirà all' autonomia (laddove esercitata) del tandem direttore-giornalisti, per consegnare l' ultima parola all' editore destinato a pagarne conseguenze tali da far chiudere in breve l' azienda.

Ferrarella Luigi, 26 settembre 2009, pagina 9




“Querele infondate ai giornali: giusto imporre una cauzione”

Intervista a Franco Siddi, segretario della Fnsi

«Molto interessante, pertinente ed utile», così Franco Siddi, segretario della Federazione nazionale della stampa, il sindacato dei giornalisti italiani, giudica la proposta lanciata ieri dalle colonne del Corriere. In pratica si tratta di prevedere, a tutela della libertà di stampa, che se una causa civile contro un giornale risulta temeraria, (cioè se la magistratura stabilisce che giornale e giornalista hanno agito correttamente), chi l' ha promossa debba pagare alla testata e al giornalista mandati assolti, una percentuale, (il 10%?) del risarcimento preteso. […]

“I risarcimenti in sede civile, ancora più delle querele per diffamazione, sono spesso assunti […] per produrre un effetto deterrente e dissuasivo nei confronti dell' informazione, soprattutto in un momento di difficoltà economica anche per le aziende editoriali”. Quindi si tratta di forme spesso intimidatorie che inevitabilmente restringono la libertà di stampa? «Sì, ed è per questo che ritengo che si debba percorrere la via indicata dal vostro giornale. Spero che essa possa essere condivisa da tutti e non solo dai giornalisti. […] noi non vogliamo la libertà di diffamare, ma non vogliamo nemmeno che qualcuno possa imbavagliare una informazione leale e corretta. Mi appello al principio di responsabilità per tutti. Per questo vorrei rilanciare, con un' ulteriore proposta”. Quale? “Penso che chi vuole chiedere un risarcimento danni a un giornale, debba versare anticipatamente, cioè all' inizio della causa, una cauzione pari al 10-15 per cento dell' indennizzo richiesto. In questo modo si potrà costituire un fondo nazionale di garanzia che assicurerà l' effettivo ristoro al giornale e al giornalista, nel caso in cui la lite si dimostri effettivamente temeraria”. Ci sono poi gli effetti di alcune norme nel disegno di legge sulle intercettazioni, che prevedono sanzioni persino per ogni dettagliata pubblicazione di un atto vero, non più coperto da segreto e riportato in maniera corretta, fino a 465 mila per le grande testate... “Chiedo che quel testo non venga mai alla luce e confido nell' effetto della moral suasion del Capo dello Stato”.

Maria Antonietta Calabrò, 27 settembre 2009

“Ho una trentina di cause.

E non riesco ad avere una polizza per le spese legali”

Luigi Ferrarella, sulle pagine di questo giornale, ha sollevato un problema che condivido e mi tocca da vicino: la pressione politica (che in Italia è particolarmente anomala) sul condizionamento della libertà d’informazione forse non è l’aspetto più importante, anche se ciclicamente emerge quando coinvolge personaggi noti. Per questo facciamo grandi battaglie di principio e ignoriamo gli aspetti “pratici”. Premesso che chiunque si senta diffamato ha il diritto di querelare, che chi non fa bene il proprio mestiere deve pagare, parliamo ora di chi lavora con coscienza. Alla sottoscritta era stata manifestata l'intenzione di togliere la tutela legale.

La direzione della terza rete ha fatto una battaglia affinché questa intenzione rientrasse, motivata dal dovere del servizio pubblico di esercitare il giornalismo d’inchiesta assumendosene rischi e responsabilità. Nell’incertezza sul come sarebbe andata a finire ho cercato un’assicurazione che coprisse le spese legali e l’eventuale danno in caso di soccombenza dovuta a fatti non dolosi. Intanto sul mercato italiano, di fatto, nessun operatore stipula polizze del genere, mentre su quello internazionale questa prassi è più diffusa. Bene, dopo aver compilato un questionario con l’elenco del numero di cause, l’ammontare dei danni richiesti e l’esito delle sentenze, una compagnia americana e una inglese, tenendo conto del comportamento giudicato fino a questo momento virtuoso, si sono dichiarate disponibili ad assicurare l’eventuale danno, ma non le spese legali. Sembra assurdo, ma il danno è un rischio che si può correre, mentre le spese legali in Italia sono una certezza: le cause possono durare fino a 10 anni e chiunque, impunemente, ti può trascinare in tribunale a prescindere dalla reale esistenza del fatto diffamatorio.

A chi ha il portafogli gonfio conviene chiedere risarcimenti miliardari in sede civile, perché tutto quello che rischia è il pagamento delle spese dell’avvocato. L’editore invece deve accantonare nel fondo rischi una percentuale dei danni richiesti per tutta la durata del procedimento e anticipare le spese ad una montagna di avvocati. Solo un editore molto solido può permettersi di resistere. […] L’art. 96 del codice di procedura civile punisce l’autore delle lite temeraria, ma in che modo? Con una sanzione blanda, quasi mai applicata, che si fonda su una valutazione tecnica “paghi questa multa perché hai disturbato il giudice per un fatto inesistente”. Nel diritto anglosassone invece la valutazione è “sociale”, e il giudice ha il potere di condannare al pagamento di danni puntivi: “chiedi 10 milioni di risarcimento per niente? Rischi di doverne pagare 20”. La sanzione è parametrata sul valore della libertà di stampa, che viene limitata da un comportamento intimidatorio. La condanna pertanto deve essere esemplare. Ecco, copiamo tante cose dall’America, potremmo importare questa norma. Sarebbe il primo passo verso una libertà tutelata prima di tutto dal diritto. Al tiranno di turno puoi rispondere con uno strumento politico, quale la protesta, la manifestazione, ma se sei seppellito dalle cause, anche se infondate, alla fine soccombi.

Milena Gabanelli, 29 settembre 2009







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