31.10.09

Dai "Mimi siciliani" di Francesco Lanza.

Il pietraperzese

Al pietraperzese era morto il pa’; e tutti lo piangevano a gran voce. Lo vestirono, lo misero nel cataletto, e diedero al pierzese da tenere la candela; e lui guardava con la bocca aperta e gli occhi asciutti, senza ài né bai.

Uno lo tirò per la manica:

- Perché non piangi? Non vedi ch’è morto tuo pa’?

E lui:

- O come posso piangere, che ho la candela in mano?

Il prizzitano

II prizzitano, non sapendo come sbarcare il lunario a casa sua, se n'andò fuori via, di là dal mare; ma vedendo ch'era peggio di prima, pensò di tornare, e per pietà s'ebbe un posto sur un naviglio.

Il viaggio era lungo, e il tempo nemico; e lui poveretto all'acqua e al vento intirizziva come una foglia. Or finalmente una notte che il freddo era più crudo, avvistarono la costa, e la lanterna del molo lungi ardeva come un braciere.

- Ah - esclamò egli allora, stendendo le mani di là per scaldarsi - ora sì che a questo fuoco mi sento ricreare!

Le gambe dei lercaresi

I lercaresi, essendo in festa, se ne andarono in campagna a prendersi spasso; e buttatisi a frotta su di un prato, mangiarono, bevvero e si sdraiarono alla rinfusa come loro meglio piacque.

Ma al punto d’alzarsi, al vedere tutte quelle gambe mischiate, di maschi e femmine, ognuno nella confusione non conosceva più le proprie, e facevano a gara:

- O quali sono le mie? E le tue? E cotesta di chi è? Ahi, che a me ne manca una!

E sono ancora là che se le cercano.

La luna e il piazzese

Due mazzarinesi, 'mbriachi fino alle nasche come scimmie, uscirono dalla taverna ch'era notte; e per ragionarla meglio se n'andavano a braccetto a piacere dei piedi, un passo

avanti e due indietro, che parevano a mare.

A un punto, sul campanile della chiesa si levò la luna, tonda come una ruota e tutta raggiante; e quelli, che gli pesava il vino, restarono allucinati a mirarla.

Uno della partita, ch'era il più cotto, gli parve il sole, e mostrandola al compagno faceva:

- Guardate, compare mio, che ci è spuntato il sole tra' piedi, e noi non ce ne siamo accorti.

E l'altro, per non dargliela vinta:

- 'Gnornò, che non è il sole, ma la luna, che i galli non cantano.

E quello:

- E io vi dico che è il sole.

- E io, che è la luna.

È il sole, è la luna, nessuno se la voleva dar persa, e se non era che non stavano dritti finiva a zuffa. Finalmente, si trovava a passare di là il piazzese, che iva a Mazzarino, pei fatti suoi; e quelli vedendolo si volsero a lui, che dicesse la sua:

- O voi, messere, è quello il sole, o la luna?

E il piazzese:

- Ahbo' io forestiero sono!

Il castrjannese

Come il castrjannese fu grande e grosso, suo pa' gli disse:

- Ora ti devi sposare, ch'è tempo e sei in potere.

E lui, che badava alle faccende in campagna:

- E voi sposatemi come piace a voi, ch'i' non so nulla e voglio farmi i fatti miei.

Il pa' gli trovò subito la zita con le gambe dritte come una giumenta, e sincera come il pane ogni altra cosa; e gli fece:

- Ora la zita te l'ho trovata, ch'è bianca e bionda come lo zibibbo; e sali tosto al paese

che tu sarai il gallo della casa

e tu cavalcherai sopra la botte

le butterai il ciuco fra la sulla!

E lui, grattandosi la zucca:

- O che, devo esserci anch'i'?

La riccia

Una volta il siciliano, non sapendo più come sbarcare la vita in Sicilia, lasciata la moglie, passò lo stretto e se ne andò in Calabria da un suo compare.

Il calabrese l'accolse a braccia aperte, e con lui divise casa e tavola, e gli trovò da lavorare con l'accetta e con la vanga.

- Compare mio - gli diceva sempre – non dovete aver soggezione con noi, e tutto quello che volete, domandatemelo; che da noi si usa spartire fin il letto con il proprio compare.

Il siciliano lavorava, mangiava e dormiva; ma molto non passò che si fece venire la malinconia, e quando vedeva il compare voltava gli occhi dall'altra parte e si tappava la bocca per non parlargli.

Il calabrese non sapeva più che domandargli, e che inventare per farlo contento:

- Compare mio, o che avete? Perché non me lo dite, ch'io ve lo fo?

Il siciliano si voltava dall'altra parte senza ri-spondergli nulla, e poi masticava per conto suo.

E il calabrese:

- Compare, o che vi ho fatto, per la grazia di Dio?

Tanto glielo disse: - che vi ho fatto, che vi ho fatto? - che il siciliano gliela cantò:

- Bel ricetto che mi avete dato, compare mio! Vi ringrazio davvero! Se foste venuto voi in Sicilia, io sì che l'avrei fatto il mio dovere; e tutto avrei diviso con voi, senza lasciarvi a digiuno di nulla. Questo non me l'aspettavo da voi, che mi dite sempre: - da noi si usa spartire fin il letto col proprio compare! - e intanto vostra moglie ch'è bella e fresca ve la tenete tutta per voi, e per me non ne serbate neppure una parte e una briciola. Bella cortesia che m'avete fatta! Se foste venuto laggiù, prima del pane avrei diviso con voi mia moglie, che soltanto così si fa onore al proprio compare.

E il calabrese:

- E perché non me l'avete detto prima, compare mio? Io non sapevo che così si usa dalle parti vostre, e mi dovete scusare per la grazia di Dio! Se ho diviso il pane con voi, divido anche mia moglie che è più dolce del pane. E poiché da voi si usa così, verrò anch'io in Sicilia per gustare la vostra.

- 'Gnorsì, compare mio; ma prima cominciamo di qua, che soltanto si rende ciò che si riceve.

La notte il calabrese uscì fuori, e il siciliano entrò nel letto ch'era tutto caldo e soffice, e non perdette un solo minuto di tempo, e la donna andava facendo:

- Se in Sicilia si usa così, sia lodato mio marito che me l'ha detto! Compare mio, datemi abento, per la grazia di Dio!

Cosi stettero tutt'e tre felici e contenti, ma il calabrese ogni tanto si lamentava che non trovava mai largo nel letto, e il compare non gli lasciava più niente di sua moglie.

- Non ci pensate - faceva il siciliano - quando verrete voi a casa mia, farete lo stesso con me, e nel mio letto ci starete voi.

Il calabrese dunque lasciava fare di buon animo, pensando di rifarsene con la moglie del compare; ma passa ora passa poi, perdette la pazienza, che il siciliano lo portava per le lunghe e non voleva mai passare lo stretto.

- Sentite, compare mio - gli disse un giorno - non è questo il modo dì mancare ai patti. Andiamo a casa vostra, per la grazia di Dio! se no, non vi so dire come finisce.

E la moglie, anche lei:

- Giusto è che ve lo portiate; se avete gustato me, voi fategli gustare la vostra, e poi tornate ancora, ch'io ne ho sempre

per tutt'e due.

Così il siciliano non poté più farne a meno, e partì col compare per il suo paese, e non so dirvi come gli facesse il cuore al pensare ciò che avrebbe detto sua moglie. Come giunsero, sì chiamò quella in disparte, che non sapeva

più che feste fare, e buttandosele ai piedi le narrò il fatto e il patto; come il compare era venuto con lui per avere la sua parte, e che quindi pensasse lei a trarsi d'impaccio.

Quella non si spaurì, che modi non le erano mai mancati per gabbare i santi, e lieto viso fece al calabrese, e lo cibava e gli girava intorno come un fuso. Come fu notte, prese che

aveva una riccia, la scuoiò e se ne mise la pelle davanti, e col calabrese se ne andò a letto, tutto vezzeggiandolo.

Al buio, quegli partì infuriato, ma saltò dieci palmi in aria, gridando:

- O che avete che voi pugnete?

- Nulla, compare mio, che tutte cosi siamo noi siciliane - e lo tirava a sé perché ritentasse la prova.

Ma quegli scappò via, ed era già in Calabria, che gridava ancora:

- Me', come pugne la siciliana!

Il licatese

Un dì il licatese, colta a tradimento la vicina, la buttò sul letto, e partì per il fatto suo.

Quella se la prese a rispetto, e gli andava facendo:

- O che malcreanza è questa con mia signoria?

Non lo sapete che alla porta chiusa si bussa e alla casa d'altri si domanda permesso?

E lui: :

- O non vedete che per entrarci mi sberretto?

Il piazzese

Andandosene a Piazza un tale, incontrò il piazzese.

O voi - gli fece - siete cristiano?

E quello:

- 'Gnornò: piazzese.

La capaciota

Il capacioto diceva sempre alla moglie:

– Moglie mia, non mi fate le corna, che mi spuntano in fronte come un becco, e la vergogna è vostra.

Quella a battersi il petto che non era cosa sua, e il pane l'aveva in casa: ma a lungo andare per sospetto che non fosse una burla e per la curiosità insieme, volle tuttavia provare, e ogni volta gli guardava zitta la fronte.

Ma prova e riprova, cotesta gli restava più liscia di prima; e gli fece stizzita:

– O che mi contavate dunque di corna e non corna, marito mio? Ve ne ho fatte che non ne posso più, e ancora non vi spunta manco il bozzo.

« Lu ma »

Il castrjannese dava marito alla figliola; e la mattina andandosene in campagna sulla mula lo annunciava a chi prima incontrava:

- Lo sapete? do sposa la figliola.

Tutti si rallegravano; ma al sentire il nome del giovane scrollavano il capo:

- Il partito è buono, ma c'è lu ma.

Ma c'è lu ma, ma c'è lu ma, il castrjannese non sapeva più che pensare: e messo finalmente uno alle strette volle sapere che fosse; e glielo dissero:

- Il giovane è buono, ma gli manca la cucca.

Il castrjannese voltò la mula e volò a casa come il vento; e li trovò che sonavano e bal lavano per festeggiare il fatto; e lui:

- Basta la musica, che la cucca non c'è.

Il festino cessò e i balli restarono in aria; e la zita cominciò a piangere disperata, dandosi pugni sulle cosce:

- Ahi, amara me, che il mio damo non ha cucca per uccellarmi la notte!

Ma quello si chiamò in disparte il castrjannese e gliela fece vedere; e allora:

- Avanti la musica, che la cucca c'è.

Le minchie

Un giorno trovandosi San Pietro a passare di qua, vide il piazzese che arato il suo campo lo andava seminando:

- O che semini? - gli domandò.

E quello:

- Mínchie, per chi non ne ha.

- E minchie sieno - disse San Pietro, facendoci sopra la benedizione.

E alla stagione infatti il campo produsse in abbondanza grandi minchie e rigogliose; e fu lo spasso delle vedove, delle vergini e delle maritate, cui una sola non bastava più.

I tredici sindaci di San Cataldo

A San Cataldo dovevano fare il sindaco. Misero la bandiera al balcone, e la sera i tredici consiglieri si radunarono al municipio. Ma, giunti al fatto, non potevano mettersi d'accordo. Chi voleva questo chi quello, e quando l'uno era pronto l'altro spuntava, e ci trovavano subito i difetti, e i se e i ma. Tutt'e tredici, ognuno diceva la sua, perché così e così il popolo voleva un sindaco e non un càntaro con la

sciarpa. Consumarono tutta la saliva che avevano in bocca, e a mezzanotte non avevano ancora concluso nulla. Finalmente la folla, che assisteva pigiandosi come le sardelle in un barile, stanca gridò:

– Votazione, votazione!

I tredici si sedettero; e sputacchiando e spurgandosi per darsi dignità, ognuno scriveva il proprio nome nella polizza, e con sussiego andava a deporla nell'urna,

dicendo verso la folla, con una mano sul petto:

– Questo lo faccio per il bene del popolo. E quelli battevan le mani.

Così, a scrutinio finito, i sancataldesi si ebbero tredici sindaci.

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