10.10.09

In attesa del decesso. Il sogno proibito della mafia perbene.


Circolava già da mesi la nuova di documenti noti da anni a poliziotti e magistrati ma dimenticati tra le scartoffie, di una lettera strappata indirizzata dal “capo dei capi” Totò Riina a quello che Bossi chiamava il “mafioso di Arcore”, di strani accadimenti intorno alla morte di Paolo Borsellino, tra cui la scomparsa della ormai celebre agenda rossa, che avevano come sfondo un orribile patto di potere tra lo “Stato” (??) e Cosa nostra. Il tutto sollecitato da nuove riscontrate testimonianze, come quella del pentito Spatuzza o del figlio di Vito Ciancimino.

All’inizio di settembre Berlusconi, il cui nome riemerge sempre da queste melme, aveva tentato di esorcizzare le nuove indagini definendole ancora una volta "attacchi delle procure rosse" e un curioso siparietto si era svolto a Gubbio nella cosiddetta “scuola”, il raduno di Forza Italia (oggi del Pdl) inventato da Baget Bozzo e organizzato da Bondi. Il presidente del Senato, il palermitano Schifani, aveva ripreso le critiche ai magistrati colpevoli di riesumare scheletri dei primi anni Novanta pur di colpire il fondatore di Mediaset proprio mentre il Ministro della Giustizia, l’agrigentino Alfano, dichiarava piena fiducia nella magistratura. In molti sorgeva il sospetto che il bastone dell’uno e la carota dell’altro rientrassero in una sorta di gioco delle parti. Alfano peraltro approfittava della platea per salutare come un grande successo le ultime inchieste contro le mafie e le nuove misure legislative di contrasto sulla confisca e l’uso sociale dei patrimoni illecitamente accumulati. Maroni, nel frattempo, quasi tutti i giorni, in convegni e interviste, grazie alle operazioni portate a termine da polizia e carabinieri, rendeva esplicita l’ambizione di passare alla storia come “il ministro che debellò la mafia”.

Ad Anno zero di giovedì scorso un iroso e sconclusionato Ghedini, evidentemente intontito dalla tranvata subita al Palazzo della Consulta, tentava di mettere insieme Schifani ed Alfano. Il succo della sua risibile difesa era: Berlusconi è perseguitato dalla minoranza organizzata dei magistrati rossi, ma il suo governo è quello che ha fatto di più per combattere la mafia.

Per quanto riguarda la prima affermazione essa è evidentemente smentita dalla circospezione che ha contraddistinto la magistratura: ha ragione Francesco Lalicata su "La Stampa" a dire che questa materia è stata sempre trattata con “una certa Ragion di stato”, fino al punto di offrire “una verità parziale … ai famigliari delle vittime come frettoloso risarcimento al lutto”. Mi pare evidente che su quella “trattativa” con Cosa Nostra e sull’attentato mortale a Paolo Borsellino (che come candidato alla successione di Giovanni Falcone avrebbe dovuto godere di una supertutela) ci si è accontentati di una verità qualunque pur di non toccare i fili scoperti, dalla presenza ad Arcore del boss Mangano ai suoi rapporti con Dell’Utri fino alla lettera indirizzata da Totò Riina a Berlusconi appena “sceso in campo”. La trasmissione di Santoro ha stimolato l’improvviso riaffiorare alla memoria di Claudio Martelli di un particolare molto importante: Borsellino nei giorni immediatamente precedenti la sua morte aveva avuto notizia di una trattativa con Cosa nostra (iniziata subito dopo l’uccisione di Falcone). Non si può escludere che a sollecitare Martelli sia stato anche il fatto che, dopo le ultime sconfitte giudiziali, il governo del Cavaliere appare politicamente moribondo. L’impressione comunque è che finora, su questo terreno minato, i magistrati abbiano salvaguardato Berlusconi piuttosto che perseguitarlo e che anche oggi, pur messi alle strette, preferirebbero che siano altri (altri poteri ed altri strumenti) a determinarne il decesso politico.

Quanto all’impegno antimafia di Alfano, Maroni & c. non si può negare che le nuove leggi si siano rivelate assai opportune e che qualcuna abbia già mostrato la sua efficacia. Le inchieste, gli arresti di latitanti, i rinvii a giudizio non sono peraltro un’invenzione propagandistica. Ma tutto ciò sembra in netto contrasto con altre scelte del governo: la legge sulle intercettazioni e lo scudo fiscale. Non è schizofrenia, c’è una logica perversa: mentre si scovano e si condannano i "soldati", l’una e l’altra delle leggi sembrano proteggono il terzo livello e la zona grigia, cioè quei politici, imprenditori piccoli e grandi, professionisti, affaristi di ogni genere, che, interni alle mafie o in collusione con esse, contribuiscono a costruirne la potenza economica, pervasiva e avvolgente ancor più della potenza di fuoco.

Questo mondo, a giudicare da condanne, processi in corso, relazioni pericolose notorie, è ben rappresentato nella maggioranza governativa anche a prescindere da Berlusconi e Dell’Utri. L’invito implicito che in questa fase il governo sembra rivolgere è di ripulirsi, recidere i legami con la “mafia militare”, rientrare nella legalità insieme ai capitali protetti dall’omertoso scudo fiscale. Nè forse è un caso che autore di uno degli emendamenti più discussi, quello che ne ampliava a dismisura le maglie, non fosse un senatore proveniente dal mondo dell’economia e delle banche, ma un ex giornalista, un uomo di mondo siciliano, tal Fleres, repubblicano storico, alla Aristide Gunnella. L’aspetto più scandaloso del provvedimento è in ogni caso l’estensione della “copertura” ai reati tributari, al falso in bilancio e alla distruzione di documenti contabili. Ciò renderà difficili le indagini nei santuari di Zurigo e Lugano, quelle che, con il concorso della sua amica Carla Del Poggio, consentirono a Falcone di trovare a bizzeffe i riscontri bancari delle testimonianze dei pentiti. Una normativa sulle intercettazioni che ne impedisca quasi completamente la conservazione e l’uso giudiziario per chi non è oggetto diretto di indagini (in modo particolare dunque per la mafia perbene) dovrebbe completare il lavoro.

A favorire queste soluzioni c’è un mondo bancario e imprenditoriale che esalta a gran voce la legalità, ma che non ha mai amato controlli attenti su manovre e speculazioni e non manca chi dice che alla fine, se i capitali con lo scudo e i mafiosi senza coppola si ripuliscono e rientrano nella legalità, è meglio per tutti.

Questa prospettiva è folle. E’ folle immaginarsi che mafiosi e complici delle mafie ripuliti possano dare un contributo a un’economia sana, tanto più che il pozzo dei denari provenienti dalla droga non sembra destinato ed esaurirsi in breve tempo e che l’attrazione dell’illegalità è fortissima in chi l’ha già fatta franca. E comunque questa prospettiva non ha molte possibilità di verificarsi, non solo per i prevedibili micidiali contraccolpi da parte dell’ala militare delle mafie, ma perché al centro di ogni possibile ricatto e controricatto è oggi il cuore del potere politico, la presidenza del consiglio dei ministri. Bisognerebbe mettere al riparo l’istituzione dalle imminenti raffiche di merda e di ogni altra sozzura che la colpiranno e sommergeranno, ma chi se ne ritiene il padrone sembra intenzionato a trascinare in malora tutto ciò che tocca.

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