18.10.09

Rosa Balistreri. Una voce per la Sicilia e per il comunismo (Salvatore Lo Leggio)



Erano anni speciali quelli che ci donarono la voce di Rosa Balistreri. Era tempo di fermenti e Rosa vi partecipò, con il corpo e con l’anima.
Nell’agosto del 1964, a Spoleto, nel corso del Festival dei Due Mondi, un gruppo di giovani interpreti, quasi tutti antropologi e musicologi oltre che musicisti, presentò uno spettacolo di canzoni popolari, Bella ciao, sotto la bandiera del Nuovo Canzoniere Italiano. Roberto Leydi e Gianni Bosio, che lo guidavano, già da anni, con ricerche, spettacoli, dischi, convegni, tentavano di recuperare e rinnovare la tradizione del canto popolare e sociale, della canzone di lotta e di protesta. Quando uno degli interpreti, Michele Straniero, intonò un canto anonimo della Grande Guerra, O Gorizia, tu sei maledetta, scoppiò un putiferio. Accusato di vilipendio delle forze armate, il cantante venne denunciato, insieme agli organizzatori e agli autori dello spettacolo. In attesa del processo, alle repliche assistevano i gendarmi per impedire che la canzone fosse eseguita.
Ma è difficile fermare una piena. Lo scandalo di Spoleto era il preannunzio di moti più profondi e vasti. C’era il mondo in subbuglio.
Di là dall’Oceano alla escalation della guerra in Vietnam i campus universitari già rispondevano con i sit-in e le occupazioni: proteste così non se n’erano mai viste. Quei giovani cercavano anche nella musica, nel filone più ribelle dei folksinger urbani e rurali, un’anima nuova per l’America. Ascoltavano, cantavano, accompagnavano con le chitarre le antiche ballate, mentre Bob Dylan, Joan Baez e tanti altri ne creavano di nuove, talora bellissime.
In Italia lo scandalo di Spoleto diede notorietà al Nuovo Canzoniere, i cui spettacoli, organizzati da Nanni Ricordi, si moltiplicavano. Alla fine del 1964 le Edizioni Avanti!, che pubblicavano la rivista del gruppo e di cui Bosio era dirigente, si autonomizzarono dal Psi e cambiarono nome, diventando le Edizioni del Gallo. I nuovi amministratori si proponevano “di continuare ed accentuare l’impostazione classista”, presentandosi come “zona franca” della sinistra. Cominciava anche la produzione dei “Dischi del Sole” e nasceva l’Istituto De Martino per raccogliere e studiare le tradizioni popolari italiane. A Roma intanto si affermava il Folk Studio ed altri gruppi, sparsi per la penisola e per le isole, riproponevano nella musica e nelle lingue regionali, quella che, nel gergo di Gramsci, era chiamata la visione del mondo delle classi subalterne. Si cantavano le canzoni tradizionali e altre se ne scrivevano, imitandone moduli, sonorità, sensibilità, si cercavano nel mondo contatti con altre esperienze di musica popolare di lotta e di protesta. L’“altro suono” (fu anche il titolo di una fortunata trasmissione radiofonica) durò almeno 10 anni, preparò e accompagnò il Sessantotto e il movimento, fino a disperdersi e, quasi, a tacere negli “anni di piombo”.
Rosa Balistreri ne fu partecipe fin dall’inizio. In coppia con Ignazio Buttitta, forse il maggiore creatore di versi siciliani, girava per piazze e teatri. Il poeta di Bagheria, con piglio da vate, declamava i suoi testi epici o comici, ma il clou era la voce di Rosa, che, accompagnandosi con la chitarra, alternava i canti della sua memoria e della sua infanzia con le storie composte da Ignazio, spesso tragiche, come il celebre Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali, e con nuove canzoni, il più delle volte tristi.
Nel 1965 Roberto Leydi e Nanni Ricordi, che organizzava in tutta Italia le esibizioni del canzoniere, proposero a Dario Fo la regia di un nuovo spettacolo. L’ideazione e l’organizzazione andarono avanti fra contrasti, ma l'esibizione fu un successo. Ci ragiono e canto debuttò a Torino nell’aprile 1966 e il gruppo di interpreti, rispetto a Bella ciao, era ampiamente rinnovato, con forti aperture verso il Mezzogiorno e le isole. La scelta di inserirvi Rosa Balistreri, suggerita da chi l’aveva vista e sentita nei recital con Buttitta, fu voluta specialmente da Fo e risultò felicissima: Rosa aveva un ruolo di primo piano e la fama della “cantatrice del Sud” si diffuse rapidamente.
La storia narra di forti tensioni tra Fo, Leydi, Ricordi, Bosio già durante la produzione dello spettacolo, tensioni che coinvolgevano gli stessi artisti. Alla base c’era la paura di una “mondanizzazione”, il timore che l’elemento spettacolare la vincesse su quello “militante” e che venisse meno il rapporto con le organizzazioni della sinistra. Iniziò così una diaspora che durò alcuni anni.
Rosa Balistreri non partecipò alle polemiche, ma i suoi rapporti con il Nuovo Canzoniere si erano fatti labili già durante la rappresentazione di Ci ragiono e canto. Pubblicò un suo disco con la Linea Rossa dei Dischi del Sole, alla fine del 1967, e partecipò anche dopo a qualche spettacolo collettivo, ma sempre da “non allineata”. Anche con Dario Fo ebbe altre episodiche occasioni di collaborazione, ma senza mai partecipare organicamente ad un suo progetto.
C’era più di una ragione. Rosa fuggiva lontano da ogni forma di intellettualismo ed il ragionare astratto di molti suoi compagni del momento le pareva distante dalla vita reale di quel popolo che pure aspiravano a cantare. Della povertà, della discriminazione, dello sfruttamento portava le cicatrici sulla propria pelle; perciò la “rabbia” in lei non era indotta, escogitata, di testa, era una sola cosa con la sua identità di donna del Sud. Studiava con impegno, provava le musiche e ricercava i testi, ma conservava intatta questa sua istintività. D’altra parte non amava i vizi tipici di quel mondo, la disciplina gregaria e la litigiosità settaria. Anticonformista di nascita e di natura, alle solidarietà ideologiche preferiva le affinità elettive, le amicizie che si scelgono e si coltivano con passione.
Mai organica a niente ed a nessuno, Rosa Balistreri rimase sempre una militante, una “compagna”. Il canto era il modo che aveva scelto per partecipare alla lotta delle moltitudini, alla loro ansia di riscatto. Cantava per il comunismo Rosa, per la società di pace, di giustizia e di amore cui aspirava. E cantava per il popolo comunista, un popolo che conosceva ed amava. Per questo, talora anche senza compenso, cantava di preferenza nelle sue manifestazioni collettive, nelle celebrazioni del Primo Maggio come nelle feste dell’Unità, nei grandi centri come nei villaggi e si trovava a suo agio più nelle piazze che nei teatri esclusivi o nelle sale da concerto.
S’è detto che Rosa era monocorde, che in lei c’era solo la nota amara, che del Sud ha saputo interpretare quasi esclusivamente il dolore e la rabbia. Errore. E’ vero che tanti dei pezzi che eseguiva parlano di partenze e di abbandoni, di sfruttamento e di disperazione, di solitudine e di costrizione, ma nelle sue esibizioni pubbliche si realizzava quella che gli antichi chiamavano catarsi estetica: la sofferenza più atroce si purificava e si bruciava, lasciando luogo ad un sentimento dolcissimo, alla “gioia del canto”. L’aiutava a raggiungere questo effetto il miracolo della sua voce. Era roca, ma con un sottofondo timbrico così vario di umori e fragranze, così ricco e pieno da ricordare il retrogusto del vino più prezioso.
In ogni caso, in questi riti collettivi, il repertorio di Rosa s’ampliava a dismisura e raramente ella rispettava la scaletta, costringendo l’orchestrina che l’accompagnava a fare i salti mortali per seguirla nelle sue incursioni canore. Alle canzoni siciliane che si ascoltavano in religioso silenzio alternava i canti di lotta di mezzo mondo, da quelli che inneggiavano ad Ho Chi Minh o a Che Guevara a quelli delle miniere Nord Americane, mentre gli spettatori levavano in alto i pugni chiusi. Poi a sorpresa chiedeva al maestro gli accordi di Ciliegi rosa o Papaveri e papere o trascinava tutti a cantare Bandiera Rossa o a battere le mani per Bella ciao. La sua voce, il suo stesso corpo davano l’impressione di espandersi fino ad abbracciare tutto intero quel popolo, a farne una cosa sola e a farsi una sola cosa con esso. È un peccato che di quelle straordinarie performance di vivo sia rimasto soltanto il ricordo.
Diversa, ma altrettanto generosa, era Rosa Balistreri, quando, nelle osterie o nelle case, cantava per gli amici e con gli amici. Più che ampliare in questi casi approfondiva: provava nuove canzoni o variava quelle già note con nuove vocalità per piegarle a significati nuovi, si cimentava in un continuo dialogo musicale con i pochi eletti che avevano la gioia di ascoltarla. Anche la chitarra veniva guidata a percorsi avventurosi, mai sperimentati. Era un’altra profonda manifestazione della sua “compagnevolezza”. Compagno è, etimologicamente, chi divide il pane con gli altri, è parola che allude alla condivisione di esperienze vitali. Compagna era Rosa nel cantare per gli amici, perché il suo cantare si faceva ancora più denso ed intenso e toccava corde profondissime.
L’amicizia di Rosa Balistreri per l’avvocato Luigi Genovese fu lunga e veniva da lontano: erano cresciuti negli stessi posti e ciò alimentava ricordi comuni, nutrivano un comune sentire verso tante cose del mondo, l’odio per le ingiustizie e l’antipatia per i caporali. In certi anni si vedevano spesso, in altri la frequentazione si diradava, ma Rosa non mancava mai ai compleanni di Gigi, a Gorizia, nel freddo febbraio. E lo riscaldava col canto. Ne è testimonianza questo disco, registrazione non professionale di una di queste presenze.
Nell’ascoltarlo ci è venuta in mente una filastrocca di Gianni Rodari, in cui chiedendo scusa alla “favola antica”, dichiarava di non avere alcuna simpatia per “l’avara formica”, di preferire “la bella cicala, che il più bel canto non vende, regala”. Ed è stato davvero un dono, un grande dono il canto di Rosa. Nominasse l’amore o il dolore, la lotta o la penuria, la sua voce intensa alludeva ad un mondo regolato da sentimenti di amicizia, prometteva (e continua a promettere) una felicità pubblica e privata.

Postilla
Il testo è stato scritto a corredo di un cd con alcuni inediti di Rosa Balistreri, ma solo una piccola parte di esso è entrata poi a far parte dell'opuscoletto illustrativo, pertanto risulta quasi completamente inedito.

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