Il brano che segue
(racconto di viaggio? fantasia filologica? saggio storico?) è tratto
dal supplemento letterario di “Alfabeta” del luglio agosto 1986.
Dell’autore, cercando
nella rete, ho ricavato alcune notizie, tali da sollecitare un
approfondimento. Era messinese, ha scritto alcuni romanzi tra cui
Placida, con prefazione di Leonardo Sciascia, e Sete, che Ivan della
Mea segnalò sulla sua rivista “Inoltre” come una sorta di
agghiacciane profezia. Dovrebbe essere morto nel 1994. (S.L.L.)
I
Charen, 1950. il luogo della battaglia, la rocca dell’assedio, il vento oltre la rocca, col silenzio, gli avvoltoi, il vento.
I fragori della lotta, i lamenti della strage, il giubilo della vittoria e l’inchinarsi della resa, ormai sepolti nel silenzio, riaffiorano nella mente.
Ma giù nella città c’è quella scritta scolpita nella pietra di fianco alla porta di un postribolo abbandonato. Dopo tanti anni dalla sconfitta dell’esercito coloniale italiano, cui è seguita la presente amministrazione provvisoria britannica, la brutalità di quella scritta ridimensiona le sensazioni provate presso la rocca dell’assedio e sospinge il viaggiatore ad indagare le profonde verità che racchiude.
Vi si legge:
NFIGA 2 LIRE
CASSOCARAMELLO 5 LIRE
NCULO NON GE.
***
II
Non ritorno alla rocca della disfatta militare. Nella solitudine mattinale la curiosità mi riporta a rileggere la scritta desolata.
La casa che fu bordello è un fabbricato in muratura, una sorta di grande baracca. Mi sembra una costruzione di mano araba con elementi, sul frontale, si architettura etiopica. Il suo squallore mi penetra l’animo. Ma mi libero subito della facile malinconia: subito, infatti, prevale l’istintiva curiosità che mi ha mosso. La mente si comincia ad abbandonare, sospinta da questa forza che mi porta a rileggere la scritta e analizzare le parole scolpite.
Quello che leggo nella scritta di pietra è l’italiano degli eritrei che hanno fatto due o tre classi elementari con maestri italiani. La N di NFIGA e di NGULO è la particella IN. Il termine GE sta per C’E’. La parola CASSOCARAMELLO indica il coito orale.
Ma avere dedotto che in quella scritta la pronuncia eritrea prevale sull’ortografia italiana, e avere chiarito il significato delle parole, anziché farmi divertire in quella specie di buon umore che viene da simili bizzarrie casinesche (qualcosa di simile accade con certe indicazioni stradali riportate alla luce negli scavi di Pompei), mi inducono invece a varcare il confine dello scopo immediato di quel tariffario e mi pongono, attraverso l’analisi delle funzioni attivate, un quesito di tutt’altra natura. Ed è questo: data l’estrema essenzialità e chiarezza con cui nella scritta si indicano le altre due funzioni, attraverso quale meccanismo il termine che esprime il coito orale è diventato, nell’italiano dell’erotismo eritreo, la parola cassocaramello?
***
III
Ma si è già formata in mente un’interpretazione della parola, ma non mi convince affatto. Scomposta nelle due ipotetiche componenti CASSO e CARAMELLO, potrebbe la scrittura CASSO essere determinata dal fatto che alcune genti del Nord (qui sono venuti colonizzatori di tutte le nostre regioni) pronunciano S la Z. Tale storpiatura dialettale avrebbe generato nel linguaggio degli eritrei (aiutando la pronuncia indigena) la parola CASSO. La componente CARAMELLO, poi, andrebbe attribuita alla servizievole necessità di esprimere le delizie dell’atto amoroso suggerendo qualcosa di dolce, caramelloso (e CARAMELLA è infatti quella vendutissima leccornia zuccherina che si lascia squagliare in bocca per gustarne a lungo il sapore).
Ma mi accorgo che l’associazione mentale del coito orale con la caramella, pur giocosa e suggestiva, non ha legame alcuno col realismo popolare, né coi profondi drammi che qui intravedo. Sono convinto che gli eritrei (e per prime le eritree, in fatto di CASSOCARAMELLO) abbiano imparato parole italiane per una serie di non volontarie, impositive anzi, necessità. Compito delle genti sottomesse non è capire il significato letterale, e tanto meno le origine linguistiche, delle parole che dice il conquistatore, ma di capire e realizzare cosa si vuole con quelle parole (con quel suono), perché il destino dei soggiogati è di accontentare il dominatore straniero. Ed è per questo che la parola CASSOCARAMELLO, nell’accennata interpretazione, malgrado l’innegabile interesse e la forza invitante degli accostamenti, mi pare adesso priva di spessore, troppo svolazzante nel giocoso.
IV
E’ certo che questo problema, da qualsiasi parte si consideri, rimane sempre una questione di lingua: E io debbo indagare adesso, in altra direzione, ugualmente di natura linguistica, ma più profonda di significato.
Nell’espressione CASSOCARAMELLO avverto una parola che, nell’indicare le delizie di un atto amoroso universalmente praticato, manifesta la brutalità originaria di un comportamento dominatore. E di tale comportamento sto pensando alla prima volta del suo manifestarsi. perché dev’esserci stata una prima volta. Intendo dire decenni e decenni addietro, quando in questa terra di conquista la parola fu detta a un donna eritrea, e da quel momento ripetuta milioni di volte a ognuna delle migliaia di altri italiani ebbe a che fare: qualche frase (non il solitario sostantivo) che produsse (ed è servita a riprodurre) l’esecuzione dell’atto erotico e la formazione tradizionale del termine nel linguaggio che le eritree rivolgono tutt’oggi agli italiani e viceversa. Dev’esserci stato un veicolo linguistico capace di realizzare per la prima volta il rapporto. E in un territorio conquistato sottomesso non può essere altro che questo: una frase che esprima il disprezzo (o uno sgomento mascherato di disprezzo) del conquistatore verso i conquistati.
E c’è, infatti. Ci sono arrivato.
***
V
Affermo che l’origine della parola CASSOCARAMELLO non risale a dialetti norditalici, né all’industria dolciaria. Risale a linguaggi di altra terra di conquista nel profondo Sud: insulari.
Siciliano e viaggiatore, posseggo gli strumenti della comparazione e della comprensione.
Ed eccolo l’ottocentesco conquistatore siciliano (sfruttato affamato umiliato arrabbiato e insoddisfatto) arrivare in terra d’Eritrea. Arrivare, cioè, in un luogo dove sentirsi finalmente vincitore e padrone. Il Regno d’Italia, che in patria lo teneva nello stato di soggezione in cui i siciliani del popolo erano stati tenuti da qualsiasi conservatore avesse conquistato la Sicilia prima dei Savoia, l’aveva messo in condizione di essere vincitore e padrone. Padrone di servi. Lui. Lui che non aveva mai avuto servi né poteva sognare d’averne se non una legittima moglie (una donna, intendo dire, che non fosse serva sua ma serva d’altri, una donna insieme alla quale andare a servire presso qualche padrone. Ed eccolo lì, in terra d’Africa: finalmente vincitore su gente di cui egli poteva disporre, che gli doveva pronta obbedienza, gente ridotta peggio di lui: schiava del servo.
Ed egli era finalmente un bianco, un europeo conquistatore. Lui: l’ultraconquistato, il due volte oppresso: schiacciato per secoli dagli stranieri invasori e dai siciliani potenti. Lui: il meno europeo degli europei, il meno africano degli africani; nato male in un pezzo di mondo nato peggio (l’isola compressa da due convenzioni apparentemente contraddittorie: una che la riteneva l’estrema propaggine settentrionale dell’Africa, l’altra che la voleva estrema propaggine meridionale dell’Europa). Lui: nato in un punto della Sicilia rispetto ai cui abitanti i tunisini e gli algerini potevano ragionevolmente considerarsi nordici.
Eccolo, il soldato conquistatore arrocato nell’illusione, uscire in campo aperto in terra d’Eritrea, smarrirsi quasi fino al collasso nel vedere per la prima volta il corpo nudo di un’africana (di aggressivo scuro dove è scuro e di violento rosa dove è rosa), ritrovare fiato e animo grazie alla forza della militar vittoria, evitare la paura dell’amplesso selvaggio con l’alibi profilattico di malattie incurabili tipiche delle razze inferiori e urlare alla prescelta con la grossolanità del tiranno e del timido (lui che per natura è portato ad accostarsi alla donna con delicatezza e tenerezza):
“Attìa, veni ‘cca a sucarimillu”.
***
VI
Adesso tutto è chiaro e il resto è facile. I nati nel territorio siciliano in cui egli è nato e cresciuto pronunciano questa frase con stacchi di fiato marcati, consonanti addentate e fusioni di vocali che la rendono, specie se detta in stato d’eccitazione, ancora più stretta, in modo da suonare così:
“Attìa, veni ‘ccassucarimillu”.
Questa fu, certamente, la frase che il siculo pronunciò in quel finire di milleottocento, accompagnandola con gesti significativi, dato che il mimico gesticolare faceva parte del suo tradizionale modo di esprimersi. E’ chiaro che quella prima donna eritrea non dalla parola ma dall’eloquenza dei gesti capì cosa si pretendeva da lei. Ma la parola era stata detta. Matrice di future e innumeri intese amorose.
Le eritree, via via che la trama di rapporti tra colonizzatori e colonizzate si allargava e infittiva (e addolciva, facendosi nei decenni più umana, fino a raggiungere punte di profondo amore) e man mano che il modo di dire si diffondeva, finirono per credere (e furono esse stesse a propagare la parola, sussurrandola quale invito al piacere) che gli italiani indicavano quell’atto amoroso con la parola CASSUCARAMILLU.
Di poi, nel corso del tempo, a confondere la lettura del termine e a proporre la dizione CASSOCARAMELLO intervenne la naturale pronuncia eritrea, confusa in seguito da quella nord italica S al posto della Z e da quel CARIMILLU che sembrava CARAMELLA e non lo era. Ma a me interessa la storia vera racchiusa in quella scritta scolpita nella pietra di un postribolo africano, storia che qui sono riuscito ad estrarre e qui ho cercato di proporre a voi.
E noi l'abbiamo letta con molto piacere, con il ricordo degli odori del bazar di Cheren
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