2.1.10

I buoni consigli di Napolitano

Il messaggio di fine anno di Napolitano

Un fine dicitore con un grande senso dell’opportunità.

Il Presidente dovrebbe far rispettare la Costituzione vigente,

non sollecitare la sua manomissione.



Dopo il messaggio di fine anno di Napolitano a decine i politici dell’area governativa hanno dichiarato il loro apprezzamento, hanno sottolineato gli “alti valori etici”, hanno ammirato l’equilibrio e la saggezza. Qualcuno, tra quelli più brutali, lo ha detto senza mezzi termini: “E’ un appoggio e un incoraggiamento al governo”.

Il Presidente è un “fine dicitore” e un “celebre equilibrista”; è dunque certo che ha pesato e dosato le parole, in modo da non esprimere mai un concetto che suonasse apprezzamento esplicito del governo (o del solo governo). Ma, se sfrondiamo il messaggio da ogni professionale ipocrisia (l’uomo politico è anche un “attore”, dall’antica Grecia in poi), la sostanza del discorso apparirà evidente.
Quando Napolitano proclama che sulla crisi finanziaria ed economica mondiale “l’Italia ha dato il suo contributo e ha per conto suo compiuto un serio sforzo”, e lo dice in un contesto politico blindato, nel quale le proposte dell’opposizione parlamentare spesso non vengono neppure prese in considerazione, il merito è da attribuirsi quasi esclusivamente al governo.
E se il Presidente afferma che oggi si può “guardare con più fiducia” al nuovo anno, seppure aggiunga che ciò è frutto dei “momenti di impegno comune e di positiva convergenza” di tutte le istituzioni e dalla intelligente e duttile reazione del tessuto sociale, non stupisce che il governo attribuisca a sé il merito principale. Il procedere del gabinetto Berlusconi, del resto, non è mai stato espressione di una generale concordia, ma di una serie ininterrotta di strappi, colpi di mano e colpi di teatro.
L’indicazione dei problemi sociali aperti (caduta di produzione e consumi, sofferenza delle famiglie, dei lavoratori precari, dei giovani, del Mezzogiorno) che nel messaggio segue questo voto di fiducia al governo non ne attenua la portata.
Quando il Presidente passa alla pars construens del suo discorso, alle riforme che considera necessarie ed urgenti, fa riferimento a valori (“solidarietà umana, coesione sociale, unità nazionale”) e ad obiettivi (“più crescita, più sviluppo nel Mezzogiorno, più futuro per i giovani, più equità sociale”) ampiamente condivisibili. Poi, tuttavia, li riconduce all’agenda governativa. La prima riforma di cui parla è, infatti, quella fiscale. “La lingua batte dove il dente duole” – dice l’adagio; è così anche per Napolitano il quale, dopo la firma a uno “scudo” che premia gli evasori a scapito dei contribuenti onesti, incoraggia la riforma improntata al cosiddetto “federalismo” fiscale. Essa si sarà pure giovata di un’ampia unità parlamentare, ma il suo significato prevalente è di lasciare di più a chi più ha. Tutto il contrario delle osannate solidarietà, coesione, unità.
Sulle riforme istituzionali e sulla riforma della giustizia, il Presidente rimane sul vago: “giungere ad una condivisione quanto più larga possibile”. Vorrebbe rispettati gli “equilibri fondamentali” tra i poteri e con le istituzioni di garanzia e consiglia “misura, realismo e ricerca dell’intesa”. Ha peraltro fiducia che “si andrà avanti, che non ci si bloccherà in sterili recriminazioni e contrapposizioni”.
Quel che in questo caso stupisce è l’ingenuità (o, a scelta, la faccia tosta) dell’inquilino del Quirinale. Chiunque segua, anche distrattamente, le vicende politiche sa che le riforme che Berlusconi promette (minaccia) di realizzare tutte entro l’anno tendono proprio a rompere gli “equilibri fondamentali tra governo e Parlamento, tra potere esecutivo, potere legislativo e istituzioni di garanzia”; e che quelle elaborate (e mai seriamente discusse) dall’opposizione parlamentare vanno con più prudenza nella stessa direzione del rafforzamento dell’esecutivo a scapito di tutti gli altri poteri.
Affidare a questo contesto politico-parlamentare ed in particolare a questa destra che governa il compito di riformare rapidamente la Costituzione e le istituzioni tutelando gli “equilibri fondamentali” previsti dai padri fondatori della Repubblica è come affidare ad Erode la protezione della prima infanzia. Se al Quirinale ci fosse un uomo saggio e realista che davvero volesse rispettati i caratteri costitutivi della democrazia repubblicana, egli userebbe il messaggio televisivo di fine anno per raccomandare in materia calma e prudenza e, invece, di sollecitare riforme (che sarebbero di segno inevitabilmente autoritario), chiederebbe, intanto, il rispetto rigoroso delle attuali regole costituzionali ed istituzionali, che invece sono sottoposte, giorno dopo giorno, a strattonate, strappi e violazioni. Ma, attualmente, l’uomo del Quirinale non solo manca del coraggio necessario per andare controcorrente (quello - raccontano certi suoi compagni “miglioristi” del Pci - non lo ha mai avuto e non se lo può dare); ma ha anche introiettato le regole auree dell’opportunità. Prima fra tutte quella che recita: “Se non riesci ad avere la maggioranza, accontentati dell’unanimità”.
L’opportunista è convinto che dentro il gioco grosso bisogna comunque rimanere. L’opportunista rimane inorridito di fronte a una opposizione prevedibilmente lunga e faticosa, che si proponga di modificare orientamenti stratificati nelle opinioni e perfino nelle coscienze della massa dei cittadini.
Io non so se riforme che tendano a concentrare il potere, temperandolo tutt’al più con una sorta di plebiscitarismo mediatico (la “democrazia dei sondaggi”), riscuotano oggi un consenso elettorale maggioritario. So che riforme di questo tipo vennero con ampia maggioranza respinte da un referendum popolare poco più di tre anni fa, ma sono anche convinto che nelle crisi cresce la tendenza ad affidarsi all’uomo forte, al governo forte, allo Stato forte. E’ una battaglia dura, ma il compito della democrazia repubblicana in tutte le sue espressioni associate e individuali, politiche, intellettuali e morali, è oggi di chiedere il ripristino della Costituzione “così com’è”, non uno “slancio” teso a manometterla, sia pure rispettando le procedure.
Esistono in Parlamento forze che alla manomissione si oppongono, nel Pd, tra i dipietristi, tra i centristi, perfino nella maggioranza governativa; ma nel Parlamento eletto con il porcellum un loro cedimento è nell’ordine delle cose, a meno che dalla società non venga una forte spinta a resistere e contrattaccare. Esiste fuori dal Parlamento una fetta importante di cittadinanza attiva che vuole tutelare l’attuale assetto costituzionale e, nonostante l’ostracismo mediatico, si manifesta tutte le volte che ne ha la possibilità. Vorrebbe democraticamente battersi per essere e dimostrarsi maggioranza. E vorrebbe al Quirinale un arbitro che fa le cose per bene, che consente di cimentarsi ad armi pari (la par condicio cara a Scalfaro). Vorrebbe infine che non si considerasse “discordia” o addirittura “incoraggiamento alla violenza” la dialettica democratica anche dura e che non si presentasse come "condivisione" l’accordo innaturale o il cedimento che porta dritto dritto all’“inciucio”. Cosa potrebbe garantire ad una minoranza parlamentare condiscendente e subalterna una maggioranza cesarista, plebiscitaria e populista, se non i vantaggi castali derivanti da una sorta di “monopolio dell’opposizione”?
Insomma su Napolitano per una coerente difesa del costituzionalismo repubblicano non si può fare affidamento. Almeno per ora. Dovremo contare sulle nostre forze per convincerlo ad esercitare meglio il suo ruolo istituzionale.
Salvatore Lo Leggio

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