2.2.10

Anarchia feudale ad Agrigento. L'Angelino incoronato, le camarille e le cosche.


Nella città dei Templi si stampa settimanalmente un foglio, "Grandangolo", diretto da Franco Castaldo, che si proclama "Il giornale di Agrigento". Ne ho comprato una copia per capire di che cosa si tratti. Si tratta del numero 3, datato sabato 16 gennaio. La più importante chiave di lettura del giornale e della sua complessiva impostazione la offre il fondo di prima pagina, incarcerato ed evidenziato da uno sfondo verdino, dal titolo I dolori del giovane Angelino.
L'Angelino di cui si parla è il ministro Alfano, l'agrigentino più potente, almeno in apparenza. "Grandangolo" esordisce, tuttavia, con l'affermazione che per lui "non è un buon momento politico". Le radici di questa sfavorevole congiuntura non starebbero nè nella "prescrizione breve" nè nella situazione carceraria, quanto nell'insidiosa guerra intrapresa da Gianfranco Miccichè con il suo Pdl Sicilia contro i colonnelli alfaniani nell'isola e nelle crepe che già adesso l'ascesa del suo concittadino Cimino alla vicepresidenza della Regione avrebbe aperto nel suo sistema di potere.
L'articolo racconta di malumori sempre più diffusi "dentro la base elettorale e dei capopopolo", parla dei "troppi amici e parenti collocati in posti ambiti", delle lamentele tra consiglieri comunali e provinciali per incarichi "finiti nelle mani di chi con il Pdl rapporti non ha", delle pretese dei "deputati regionali, nazionali ed europei ... investiti da sovrumani poteri (sempre Angelino)".
"Grandangolo" esemplifica raccontando gli altalenanti rapporti tra il ministro e il sindaco di Agrigento, Zambuto. Forse i non agrigentini (e persino qualche agrigentino) non ricordano la storia di costui, davvero divertente, quasi da spiscio. Io la farò corta. Zambuto era uomo di Cuffaro, che, a sua volta, al momento del voto comunale agrigentino era presidente della Regione e stretto alleato di Forza Italia. I berlusconidi pretesero la sindacatura, ma Zambuto si tirò fuori dall'accordo. Vinse le elezioni come candidato di una lista civica e del centrosinistra, anche grazie al voto disgiunto di non pochi cuffariani. Una volta eletto lasciò passare un annetto e tornò a destra, lasciando gli alleati di centro-sinistra in mezzo a una strada. Diceva di farlo per Agrigento: "Solo Berlusconi può salvarci". Cercò un collegamento proprio con Alfano, ma per i problemi del Comune - raccontano su "Grandangolo" - ha dovuto bussare ad altre porte. Si aspettava almeno gratitudine; e invece ha appreso che a guidare il Pdl locale per conto di Alfano non sarebbe stato lui, ma un deputato regionale, tal Nino Bosco.
Per "Grandangolo", insomma, dopo "l'incoronazione politica di Silvio Berlusconi", Alfano avrebbe fatto "troppe rinunce ad esercitare sul territorio il potere che ne discende" e adesso sarebbe costretto a correre ai ripari "per il bene di tutti: Agrigento, la politica, i bisogni della gente e lo stesso Angelino".
L'articolo è di per sè preoccupante: vi si parla di incoronazioni, di investiture, di capibastone (pardon capiopopolo), di amicizie e parentele. Ne esce l'immagine di una società feudale ove il notabile di peso, che ha ricevuto cariche e remunerazioni, ha il compito di garantire al sovrano la fedeltà delle clientele locali, i cui conflitti deve gestire senza troppi malumori.
Se leggiamo il resto del giornale la preoccupazione aumenta. In prima pagina c'è un articolo contro il consigliere comunale, storico dirigente di Lega Ambiente, Giuseppe Arnone, dal titolo Peppe A.: prove di ricatto ai magistrati. E' un attacco personale violento, in cui lo si accusa di essere, per motivi e rapporti oscuri, una specie di calunniatore di professione e di minacciare la magistratura che lo avrebbe incriminato per diffamazione. Il pezzo è pieno di allusioni e obliqui riferimenti , incomprensibili non solo per me che, pur nato nell'agrigentino, so poco di quel che vi accade nel sottosuolo, ma probabilmente anche per tanti che, vivendovi, non appartengono alla consorteria che lega politicanti, burocrati e affaristi nella gestione del potere locale. Non saprei dire perciò se l'Arnone, un tempo protagonista di epiche ed encomiabili battaglie contro l'abusivismo, sia da allora così profondamente mutato o se sia vittima di un killeraggio mediatico in stile mafioso. Ad Arnone e all'imprenditore Miccichè, un tempo nemico e oggi amico dell'esponente ambientalista, proprietario di Teleacras, è dedicata gran parte della pagina 2. A pagina 4 si può leggere un altra sparata dal titolo: Arnone: c'è o ci marcia? La firma, nella qualità di Presidente di un Comitato Legalità e Trasparenza, l'avvocato Salvatore Patti. Vi si racconta una complicatissima storia di presunte intimidazioni, di presunte estorsioni, in cui "il cattivo" è sempre Arnone.
Le cronache mafio-giudiziarie occupano quel che resta della pagina 2 e l'intera pagina 3. Sono basate su atti processuali. A pagina 2 un pentito, tal Rizzuto, deponendo a Milano sembra ridimensionare le responsabilità di un tal Sala e di un tal Davilla. "Grandangolo" ci costruisce il titolo, Rizzuto: "Sala e Davilla non fanno parte della famiglia mafiosa". A pagina tre c'è una selezione delle dichiarazioni del pentito Giuffrè su tangenti e appalti. E' piena di nomi. Ho netta la sensazione che la scelta non sia innocente.
Concludo che, se l'editoriale-appello, diretto ad Alfano, segnalava una regressione dalla politica all'omaggio vassallatico, l'intero di "Grandangolo" mette in luce una sorta di anarchia feudale, una guerra senza quartiere e senza regole, senza moralità e senza eroismi, in cui si usano le armi più proibite e inquinanti, e a cui partecipano clientele, camarille, caste e, soprattutto, cosche.

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