2.2.10

Il Duce e la Croce


Il 31 ottobre 1926 a Bologna, mentre in automobile, tra due ali di folla plaudente, transitava da piazza del Nettuno per inaugurare lo stadio Littorio, Mussolini fu colpito da un colpo di pistola che gli lacerò la giacca. Il presunto colpevole, un giovane anarchico non ancora sedicenne, Anteo Zamboni, fermato dall’ufficiale di fanteria Carlo Alberto Pasolini (padre del più noto Pier Paolo), fu linciato sul posto dagli squadristi bolognesi di Leandro Arpinati.
Sulla sua effettiva colpevolezza rimangono tuttora ampi margini di dubbio. Ernesto Rossi (Il manganello e l’aspersorio) ed altri storici hanno riportato la voce, al tempo ampiamente diffusa, che l’attentato fosse stato organizzato da Farinacci o da altri gerarchi e che i loro scherani avrebbero linciato sul posto il malcapitato ragazzino per stornare i sospetti.
Due anni dopo fu celebrato dal Tribunale speciale uno dei suoi processi più ignominiosi, contro il padre e una zia di Anteo Zamboni, condannati a vent’anni di carcere senza alcuna prova. Negli atti istruttori di quel processo (vedi Il Tribunale Speciale di Cesare Rossi) si può leggere la dichiarazione di Mussolini, secondo il quale l’attentatore, che egli aveva con nettezza distinto, era “un giovane di media statura, vestito di chiaro, con un cappello floscio che, superati i cordoni, aveva fatto un passo verso la vettura”. Il ragazzo linciato invece era vestito di scuro, con la camicia nera e – a sentire altri testimoni - aveva sparato da dietro il cordone dei militari.
Certo è che Mussolini e i suoi usarono l’attentato per accelerare la costruzione del Regime con l’istituzione del Tribunale speciale e la soppressione delle residue libertà.
Curiosa la reazione del giornale ufficiale del Vaticano, l’“Osservatore romano”. Il due novembre pubblicò una cronaca dove non si usò una riga per condannare il linciaggio, che intanto “Il popolo d’Italia”, il giornale del Duce, aveva definito “la forma più salutare di vendetta”. L’articolo del quotidiano delle curia non si limitava peraltro ad esprimere i sentimenti di esecrazione “del Santo Padre e dell’episcopato italiano” verso l’attentato, ma anche la “viva e lieta riconoscenza verso la Divina Bontà che aveva provveduto a renderlo vano”: “Il popolo vi ha scorto la mano del cielo e ha reso unanime grazie al Signore”.
Il giornale si spingeva oltre: “L’attentato alla vita di chi ne regge le sorti, colpirebbe oltre alla sua persona tutto il popolo italiano”. Si tratta solo di un esempio della valanga di attestati di ammirazione verso il Duce da parte della gerarchia cattolica, nel tempo in cui insieme alle Leggi speciali si preparava il Concordato tra Stato e Chiesa.
Pio XI, papa Ratti, aggiunse al tutto una nota personale il 20 dicembre, nel corso di una allocuzione concistoriale. Ricordando “la tempesta di indignazione, di orrore per l’insano attentato alla vita dell’uomo, il quale con tanta energia governava le sorti del Paese da far giustamente ritenere periclitare il Paese stesso ogni qualvolta periclita la sua persona”, parlò di “quasi visibile intervento della Divina Provvidenza”.
Intanto, ai primi di novembre, si era celebrata la ricollocazione in Colosseo di una grande e pesante croce all’uopo restaurata. La rievoca un volantino (di cui il presente post contiene copia) ripreso da un recente libro dell’antropologa Clara Gallini (Il ritorno delle croci, Manifestolibri), che era stato stampato per l'occasione e mostra Mussolini mentre saluta romanamente il crocifisso.
Il testo così recita:
LA CROCE che i passati Governi bandirono dalle scuole e dagli ospedali, togliendo così ai nostri Figli il culto della fede e ai morenti l’ultimo conforto fu per volere del DUCE ricollocata nelle aule e nelle doloranti corsie ed è oggi trionfalmente riportata nel Colosseo di dove cinquantaquattro anni or sono era stata rimossa. La domenica VII Novembre MCMXXVI una devota moltitudine di popolo si [parola incomprensibile] nel vetusto anfiteatro per rendere grazie alla CROCE che aveva pochi giorni avanti salvata all’Italia la preziosa esistenza del DUCE invitto. Un pio sacerdote, dopo il solenne Te Deum, pronunciava fra la più intensa commozione del popolo nobili e sante e patriottiche parole, così concludendo: LA CROCE CHE IL NOSTRO DUCE ONORA ED ESALTA È QUELLA CHE LO PROTEGGE ”.
Il prete, evidentemente, si riferiva al fallito attentato. Ma ancora più significativo mi pare l’accenno del volantino al fatto che i crocifissi erano stati in precedenza rimossi da aule ed ospedali, contrariamente alla vulgata che circola attualmente, interessata a mettere in rilievo la continuità di quella presenza.

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