5.3.10

Il poeta che ordinava ai lettori:"Non lasciatevi sedurre". Giuseppe Montesano su Bertolt Brecht.

Giuseppe Montesano è un narratore, soprattutto della sua Napoli, di cui ha raccontato le glorie e l'economia di rapina. Io ho letto, trovandolo bello, solo il romanzo Di questa vita menzognera. Ho visto che di quando in quando si occupa, pare con successo, di poeti e scrittori: ha al suo attivo un libro su Baudelaire e uno su Hesse. Cercando qualche approccio nuovo alla poesia di Brecht, mi sono imbattuto in questo suo pezzo per una pagina de "l'Unità" che il 14 agosto 2006 rievocava il poeta e drammaturgo tedesco a cinquant'anni dalla morte. Lo "posto" qui per averlo a portata di mano e per metterlo a disposizione dei visitatori. (S. L. L.)

Nessuno è come lui: a volte suscita antipatia già solo a vedere quella sua faccia ingenuamente furba e ancora più a leggere certe frasi da saccente propagandista; sembra consumato dall’uso, e dejà vu, come le città d’arte troppo fotografate dai turisti ebeti; infastidisce che un comunista convinto amasse fumare sigari avana e andare a letto con le sue attrici; si ricorda con voluttà che masse di fighetti radichic squittivano per il Brecht strehlirizzato e milvizzato, dimenticando i grandi Wedekind o Sternheim; e si ridacchia tra impietositi e supponenti sulla sua banalità di pensiero. E cosa ancora mancherebbe a un poeta per essere sepolto e dimenticato?

Eppure nessuno è come lui, non si può sbagliare, basta aprire e leggere, per esempio Contro la seduzione, nella versione di Franco Fortini: «Non vi fate sedurre: non esiste ritorno./Il giorno sta alle porte,/ già è qui vento di notte,/altro mattino non verrà.//Non vi lasciate illudere / che è poco, la vita./ Bevetela a gran sorsi,/non vi sarà bastata/quando dovrete perderla.//Non vi date conforto:/vi resta poco tempo./Chi è disfatto, marcisca./La vita è la più grande: nulla sarà più vostro.// Non vi fate sedurre/da schiavitù e da piaghe./Che cosa vi può ancora spaventare?/ Morite con tutte le bestie/e non c’è niente, dopo».

In tutto il ’900 nessun poeta ha questo tono, nessuno questa secca musica da allegra marcia funebre, nessuno questo miscuglio di sublime strozzato e di carne rotta che canta con e contro tutte le proprie fratture.

Ma di cosa parla davvero, il poeta Brecht? Come i pochissimi che hanno acceso la lirica a contatto con il suo contrario, Brecht non parla di niente che venga fuori dal meschino narcisismo dell’io, ma costringe uno sfrenato romanticismo a condensarsi in una stordente oggettività: e crea nei suoi momenti più alti una sorta di realtà suonata a tempo di allegro sfrenato inventata a partire dall’ombra, dalla notte, dal rovescio. Molti poeti moderni hanno tentato di far fluire nei loro versi il ritmo sghembo della poesia popolare, della canzone ebbramente lucida, teppisticamente raffinata: in nessuno l’incrocio tra l’azzoppato stridere di una fisarmonica immaginaria e la metrica di un Orazio cristallino è arrivato ai risultati del Brecht migliore.

Nello stupefacente Libro di devozioni domestiche, Brecht riuscì a mettere insieme la visionarietà che procede per analogie sconnesse e logicissime di Rimbaud e la feroce e tragica allegria di Villon, la salmodia biblica ridotta all’osso carnale e la canzonaccia da cabaret alla Wedekind, e spinse la poesia moderna a un bizzarro e insorpassabile crocevia dove «l’adultero miscuglio di tutto» già espressionista preconizzato da Corbière si metteva all’ascolto di una musica più segreta: «Essi fecero dei buchi nelle mie pareti/ e, di nuovo, sgusciarono via da me bestemmiando:/ dentro non c’era nulla se non spazio e silenzio… Rotolai sogghignando all’ingiù tra le case/ fuori all’aperto. Lieve e maestoso il vento/ora correva più rapido fra le mie pareti. /Nevicava ancora. In me ci pioveva dentro… Più debole delle nubi! Più leggero del vento!/ Non visibile! Leggero, abbrutito e maestoso come/ una poesia delle mie…». I nessi razionali sono manomessi dal giovane Brecht in modo subdolo, ma la sua tecnica di visione è simile a quella di Rimbaud: l’alternanza choccante, veloce e scorciata come nel montaggio di un film, tra l’astratto e il concreto; l’aggettivazione slegata anche solo di pochissimo dalla logica corrente; la costrizione imposta al linguaggio che è convenzionale di dire «altro» attraverso la sua stessa convenzionalità, spingendo i mozziconi di frasi fatte in un vortice di musica come in una giostrina da ironica Apocalisse. E questo letteralistico e ubriaco torcere il collo all’eloquenza, non verrà mai del tutto meno: neanche nel Brecht che mette in versi Il Capitale con eloquente e noiosa retorica o scrive lunghissime ballate dal ritmo da orologiaio sull’Armata Rossa o su qualunque cosa: perché in Brecht col tempo l’ironia era diventata non una forma retorica, ma un luogo segreto della visione, il luogo dove ogni cosa può essere letta al contrario.

Era forse questa dialettica ormai interiorizzata che attirò Walter Benjamin a trattare i testi «semplici» di Brecht come testi da decifrare, testi che non si esaurivano né con una lettura simbolica né con una lettura formale, ma avevano bisogno della capziosa interpretazione riservata ai testi sacri. Ma Brecht sfuggì persino alla presa di Benjamin, perché in lui ciò che alla fine diceva quello che le parole tacevano era una musica molto particolare, una disposizione sintattica

prossima alla prosa eppure vocale, canticchiata o cantata che fosse, una musica che a tratti si spingeva fuori dalla gabbia del tic-tac metronomico e riusciva a trovare un tono di canto parlato che nella versione di Fortini di Come schedarla, la piccola rosa, suona così: «Come schedarla, la piccola rosa./ Rosso viva improvvisa e giovane e vicina?/ Non eravamo venuti a cercarla./ Siamo venuti e c’era.// Nessuno l’aspettava prima che fosse qui./ Quando ci fu la credettero appena./Viene alla meta chi non è partito.../ Quasi sempre è così…», o come in Tempi duri: «Dalla mia scrivania/ vedo oltre la finestra in giardino il cespo di sambuco/ e vi riconosco qualcosa di rosso e qualcosa di nero/ e mi ricordo d’improvviso il sambuco/ della mia infanzia ad Augsburg.// Per qualche minuto considero/ in tutta serietà se debbo andare fino al tavolo/ a prendere i miei occhiali per vedere/ ancora le bacche nere sui rami rossi».

Questo cantare fatto di cose accostate quasi senza l’ausilio di legami era la lezione che Brecht aveva imparato dai poeti cinesi classici, un infinito rispetto per le cose che esistono e una attenzione sveglia, necessaria per accorgersi che esistono, lo stupore della realtà vista come per la prima volta. Ma questa sapienza estrema che non può essere detta se non nell’ellissi della poesia, in Brecht comunicava con una visione del mondo saccheggiato da una oppressione dell’uomo sull’uomo mai così capillare e interiorizzata, e proprio questa vicinanza con il suo rovescio dava alla sua poesia una estrema essenzialità: il ritornello variato all’infinito del «che tempi sono questi, quando/ discorrere d’alberi è quasi un delitto,/ perché su troppe stragi comporta silenzio» non smise di ossessionare Brecht, e lo sospinse a rendere conto della domanda più tagliente, quella sulla possibilità di fare l’amore con la lenta verità della poesia in tempi desiderosi solo della sveltina falsa dell’informazione.

La risposta fu brechtiana al massimo, perché non ci fu risposta: solo un continuo ricominciare della poesia da capo, un inventivo e insuperato sfregare alto e basso per far accendere di nuova fiamma i sensi morti, cercando di traghettare nel suo bateau ivre mascherato da scialuppa di salvataggio la sola merce che per lui contava: la vita individuale degli esseri e delle cose, il corpo e anima indissolubile in ognuno e in ognuno unico e irripetibile, e la certezza che l’ingiustizia fatta da mani umane può essere disfatta da altre mani umane. E forse, ma solo per chi fosse capace di scendere fino in fondo al buio dei tempi sempre difficili per chi sta dal lato dei sommersi, anche qualcosa di completamente diverso: «Spogliarsi di violenza,/ rendere bene per male…». Ironia dialettica o ultima rivolta possibile in vista dei disastri futuri?

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