7.3.10

L' articolo della domenica. "Cu cumanna fa liggi": prove di regime.

Napolitano e la legalità

Forse non aveva tutti i torti Barbara Spinelli qualche tempo fa, quando, parlando dell’attuale presidente della Repubblica a Marco Travaglio, metteva a sua carico una maggiore attenzione ai rapporti di forza che non ai valori della legalità, della giustizia e del diritto. Aveva meno ragione quando attribuiva questa caratteristica al suo passato di “comunista ad alto livello”.

E’ assolutamente vero che c’è stata una corrente, probabilmente maggioritaria, del comunismo novecentesco che assegnava poca o punta importanza al costituirsi in legge della stessa trasformazione sociale e al sedimentarsi della legge in costume, in legalità diffusa. E tuttavia non credo affatto che i silenzi (sicuramente voluti) di Napolitano sulla magistratura nel messaggio di fine anno, che erano oggetto delle osservazioni della Spinelli, dipendessero dal comunismo, quanto da una tradizione più precipuamente italiana, che trova la sua massima espressione nel Guicciardini del “particulare”. E’ idea sempre presente nel personale politico italiano (o almeno nella sua parte più numerosa) che sui “sacri princìpi” si può e si deve transigere di fronte a rapporti di forza sfavorevoli: col nemico potente è preferibile non scontrarsi e piuttosto venire a patti, finché si ha qualcosa da dare in cambio.

Il perenne feudalesimo italiano
Anche la svalutazione della legalità, che peraltro accomuna Napolitano a molti (troppi) altri personaggi dell’attuale scena politica, è nel suo caso più italiana che comunista. C’è un proverbio siciliano che recita: “cu cumanna fa liggi” (“chi comanda fa legge”). Esso contiene la sostanza di molti secoli di storia e di un secolo e mezzo di vita nazionale, in cui l’arbitrio domina quasi sempre sulla legge. In Italia per molto tempo perfino chi l’aveva dettata si è disposto a piegare, ad eludere, a violare la legge, quando essa non gli faceva più comodo. Non devono pertanto ingannare né le tirate retoriche sulla “patria del diritto” né la presenza di un numero altissimo di leggi e di avvocati; i più appartengono al tipo fissato dal Manzoni nell’Azzeccarbugli: sono specializzati nell’aggiramento della legge non nella sua applicazione.
Ruggiero Romano (nel saggio introduttivo alla Storia d’Italia Einaudi) indicò nel feudalesimo una delle costanti vicenda nazionale. Con il termine intendeva i diffusi legami di subordinazione personale, di consorteria, di clientela e di corporazione (connesse a forme più o meno violente di spossessione di diritti nei più) che tendono a prevalere sulla legge e continuano a permeare la vita civile, economica e sociale della nazione, anche in un contesto divenuto formalmente capitalistico e liberale.
Io credo che appunto al “chi comanda fa legge” della società feudale (ove lo ius non è nella legge scritta ma nel detentore dell’imperium) si sia assoggettato Giorgio Napolitano nel firmare il decreto con cui Berlusconi e il suo governo hanno inteso sanare le magagne delle liste elettorali, ancora prima che gli organi preposti esaurissero le loro pronunce. La patente incostituzionalità del decreto non lo ha, come altre volte, fermato o frenato, perché dall’altra parte gli si è detto in mille modi che “non rispondevano di loro stessi” e la paura mette fretta.
Slittamenti progressivi
Da molti si è parlato di un vero e proprio stravolgimento delle regole, di un golpe vero e proprio, dell’instaurazione, se non di una dittatura, di una “democratura”, in cui l’investitura elettorale, peraltro conseguita con lo stravolgimento di ogni regola e di ogni decenza, pone chi l’ha ottenuta al di fuori e al di sopra della Costituzione e della legge.
Condivido. Questo non è certamente il primo strappo, ma rappresenta sicuramente un salto di qualità. Chi ha ceduto una volta difficilmente resisterà la seconda. Credo che il Cavaliere abbia nella circostanza rivelato una abilità politica non comune nel perseguire i suoi obiettivi di distruzione delle garanzie democratiche.
Tutto è nato dalla superficialità e dalla arroganza dei suoi (perfino Bossi ha parlato di “dilettanti allo sbaraglio”). Il Pdl ha votato in tutta Italia (in combutta col Pd, talora con l’Udc e in Umbria perfino con Rifondazione) leggi elettorali tese a complicare la vita ai nuovi e ai piccoli attraverso gli adempimenti burocratici e ha reso più difficile l’autenticazione delle firme dei presentatori di lista; ma i suoi esponenti, in almeno un paio di grandi regioni, han fatto le cose con il massimo della superficialità e della arroganza, come se i controlli dovessero riguardare soltanto gli altri.
Si trattava pertanto di un grave errore. Ma Berlusconi lo ha trasformato in una opportunità. In un paese poco avvezzo al principio di legalità, l’esclusione delle liste per motivi formali è normale quando riguarda una formazione minoritaria, ma sarebbe stato percepita dai molti elettori attuali e potenziali del Pdl come una forzatura intollerabile, specie se aizzati dalle tv pubbliche e private in mano alla destra. In un confronto di piazza il Cavaliere sarebbe potuto uscire per la prima volta trionfatore, anche per la prevedibile inconsistenza delle reazioni nel Pd. Al Quirinale, pertanto, Berlusconi s’è presentato con la minaccia: “Se non firmi, sei complice di questa carognata e io ti scateno contro la piazza”. Sapeva di trovare il suo interlocutore in ultima analisi acquiescente al ricatto, incapace di accettare la sfida, di appellarsi al popolo lavoratore, proclamando il principio di legalità e di uguaglianza di fronte alla legge per quello che in essenza è, cioè difesa del debole dalla prepotenza. Così il Cavaliere ha ottenuto anche il risultato di poter avviare a soluzione la crisi di regime. Passo dopo passo per slittamenti progressivi: oggi si è messo sotto il Quirinale, domani ci si proverà con il grosso della magistratura, dopodomani con il sindacato, fino a chiudere il cerchio. I cambiamenti costituzionali seguiranno.
Intanto un altro passo viene compiuto sul terreno della legislazione sociale. Col silenzio quasi totale e colpevole della opposizione parlamentare è passata la legge che tende ad aggirare l’articolo 18. Molti ne conoscono la norma che introduce surrettiziamente l’arbitrato, ma essa contiene alcuni veleni meno evidenti. I cosiddetti “licenziamenti orali”, per esempio, sono da oggi ritenuti l’inizio dei sessanta giorni per l’impugnazione del provvedimento. Per un datore di lavoro basterà sostenere che il licenziamento è avvenuto oralmente assai prima della data indicata dal lavoratore (e provarlo con qualche testimonianza compiacente) per bloccare il processo del lavoro prima ancora che cominci. Anche questo è un piccolo colpo di stato e prepara successivi slittamenti: al termine del percorso il padrone potrà licenziare “ad nutum”, con il solo cenno del capo. Come ai tempi della buonanima.

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