12.3.10

Lo sterminio degli invisibili. Perchè è stato cancellato dalla memoria l'olocausto degli zingari (Clara Gallini)


Due sopravvissuti. Pietro Terracina e Giulia Spinelli
alla manifestazione antirazzista. Roma, 8 giugno 2008

In un ritaglio de "il manifesto" (non ho potuto rintracciare il giorno e l'anno, ma doveva essere anno più anno meno l'85) ho conservato un articolo documentato, profondo e inquietante dell'antropologa Clara Gallini. Mi pare più attuale oggi che allora. Lo posto qui leggermente ridotto. (S.L.L.)
“Perché possa vivere un bambino ebreo / Perché possa vivere un bambino zingaro”. Così recita una lunga e dolente lirica di Papusza, poetessa zingara. Fu composta in lingua polacca nel 1944. Ma Papusza chi la conosce? Chi mai ha letto o ascoltato i suoi canti? E chi si è mai ricordato degli zingari, ad Auschwitz – la capitale del massacro – ma anche a Dachau, Buchenwald, Ravensbruek? Difficile perfino tenerne una contabilità precisa. Calcoli approssimativi hanno computato 219.700 morti, ma poi la cifra è salita a 229.700 e molti ancora mancano all’appello. Quanti di noi sanno o ricordano che per i nazisti la Soluzione finale della questione razziale si chiamava Soluzione finale degli ebrei e degli zingari?
Sapere, ricordare significa anzitutto fare nostra la questione dell’altro, come ha fatto Papusza, che assume insieme alle persecuzioni del suo popolo anche le persecuzioni dell’altro, l’ebreo. Noi invece l’abbiamo cancellata dalla nostra coscienza, buona o cattiva che sia. Lo zingaro non ha diritto di entrare a far parte di quell’altro che è in noi, neppure per rappresentarne quel male oscuro che, nel giudizio di Sartre e Jankelevitch condiviso da Rossanda, sarebbe simboleggiato dall’ebreo. Sinistro privilegio, comunque privilegio…
Nei campi di sterminio la presenza degli zingari era massiccia, anche percentualmente. Ci sono arrivati come tappa finale di un itinerario di genocidio, che aveva trovato le sue giustificazioni scientifiche. Tutti sappiamo che gli zingari sono una popolazione nomade, emigrata dall’India centrale due, forse tre millenni prima di Cristo, per ragioni sconosciute. Dall’India all’Afghanistan, da qui al Vicino Oriente e infine – attorno al XIV – XV secolo in Europa, sempre mantenendo il loro stile di vita nomade e una lingua che, nonostante successivi prestiti, rivela una spiccata struttura indoeuropea affine al sanscrito.
La loro è la storia di un popolo-paria. Perfino i nomi con i quali li indichiamo non gli appartengono: gitano significa “egiziano”, zingaro addirittura intoccabile (dal greci a-thyngàno, non tocco). La Soluzione finale del problema zingaro si basava su presupposti, uno di ordine pubblico – la “asocialità” di questi gruppi nomadi – uno di ordine razziale. Venivano dell’India, parlavano sì una lingua indoeuropea, ma non potevano essere riconosciuti come “ariani”. Si inventò allora una “razza spuria”: razza contaminata da millenni di contatti con le popolazioni più diverse, non doveva a sua volta contaminare gli ariani. E’ vero che all’inizio si individuarono un paio di gruppi tribali “puri” e pertanto da conservare come “musei viventi” per lo studio scientifico, ma anche questi erano campioni da studiare, non da perpetuare. ecco dunque, nel 1940, la sterilizzazione in massa di questi “fortunati”, risparmiati comunque per poco, perché anche per loro si sarebbero presto aperti docce e forni crematori.
Ma la Soluzione finale del problema zingaro non ha avuto solo conseguenze fisiche, per quanto tragiche meno tragiche di un’altra: la cancellazione della memoria. Cancellare la memoria è attentare all’identità sia di chi dovrebbe essere ricordato che di chi dovrebbe ricordare. Attentare all’identità degli zingari, dunque, ma anche alla nostra. Di noi che li perdiamo.
Zingari-intoccabili. Da non toccare e da non vedere. Da poco (è del 1979) è uscito un libro di Christian Bernadac, L’Holocauste oublié – Le massacre des Tsiganes che raccoglie una documentazione impressionante sulla vita dello zingaro nei campi di sterminio: una vita, se possibile, assai più dura e carica di vessazioni rispetto a quella degli altri compagni, anche per le nuove aggressività e le nuove marginalizzazioni che nelle “istituzioni totali” si sviluppano contro il più debole. Ebbene di tutto ciò non c’è traccia nella pur copiosa diaristica che si è pubblicata. Al più qualche fugace allusione, spesso di fastidio, la ripetizione di stereotipi sullo zingaro ladro, collaborazionista e rompiscatole. Non si vede ciò che non si vuol vedere. Gli occhi restano chiusi nonostante l’evidenza.
E a Norimberga? Solo briciole. Non interessavano a nessuno.
A Norimberga nessuno zingaro ha testimoniato. I nostri lavacri di coscienza ce li siamo fatti solo rispetto a una delle due controparti della “soluzione finale”, quella che in qualche modo contava. Non si è popolo-paria per nulla.
Ma gli zingari sono popolo? Se sono un “popolo” gli ebrei perché non gli zingari? Hanno una lingua. Hanno una cultura: certo una cultura-paria, di emarginazione e contraddizione, soprattutto orale. Cultura che non ha potuto – o saputo, o voluto – fare accedere nessuno dei propri rappresentanti alle leve di qualsivoglia potere e che forse proprio per questo non si è fatta interlocutrice, in qualche modo integrandosi. Hanno avuto una terra. E l’hanno perduta oltre mille anni fa. Ne restano brandelli di memoria in remoti racconti mitici.
Loro si definiscono con i nomi di due etnie – Rom e Sinti – e hanno attualmente una organizzazione rappresentativa. Nell’estate del 1981 si è tenuto il Terzo Congresso della Romani Union. Ebbene in questo congresso (era presente anche Simon Wiesental) per la prima volta si è chiesto al governo tedesco il risarcimento delle famiglie sopravvissute: diritto riconosciuto l’anno dopo, ma non ancora onorato, dal governo tedesco.
Tutto questo vorrei ricordare a chi si cosparge il capo di cenere sull’Olocausto. E non per diminuirne la tragicità. Per vederla e capirla insieme alla parte dimenticata o mai vista. Guardo con molto sospetto i canali attraverso cui si formano le nostre coscienze colpevoli. Mi chiedo perché – e se solo – l’ebraismo abbia avuto il destino altamente drammatico di rappresentare “la zona fragile della comunità sulla quale possono riversarsi in orrore più o meno confessate debolezze e paure” (Rossanda). Mi chiedo cosa avrebbe da dire uno zingaro, su tutto questo. Lui che attenta ogni giorno ai nostri portafogli – nostra dimensione fisica della proprietà – che ci ruba i bambini e ci scaglia la maledizione, il malocchio: così almeno pensiamo. E allora torniamo all’olocausto degli uni e degli altri. Perché lo zingaro non ci rimorde le coscienze ma l’ebreo sì? Non è una domanda ovvia che preveda ovvie e prevedibili risposte: perché l’ebreo, bene o male, era integrato e lo zingaro no. Oppure (ma sarebbe una risposta peggiore): perché l’ebreo ha avuto una patria e lo zingaro no.
La domanda che mi pongo sul diverso destino nelle nostre coscienze dell’olocausto degli uni e degli altri tocca il problema del nostro rapportarci con l’altro che non può essere selettivo. Perché se avviene la selezione tra un “Altro di serie A” e un “Altro di serie B”, non si fa un favore neppure all’unico esemplare scelto. Perde carne e ossa e diventa un simbolo.
Sul piano culturale ne esce un’amputazione che è violenza rispetto agli altri e rispetto a sé stessi. Rispetto all’ebreo, nei confronti del quale può risultare un rapporto intorbidato da rigurgiti non razionalizzati. Rispetto allo zingaro – o ad altri taciuti e non visti – perché si finisce per giustificarne l’oppressione e annullarne la presenza mediante il semplice gesto di ignorare l’una e l’altra. Rispetto a noi stessi infine, se non altro perché perdiamo la ricchezza di un confronto con culture diverse e genti in posizioni diverse di potere.

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