10.3.10

Palermo 1860. Il "pizzo" dei garibaldini e la cresta del Comune.


Su “La Stampa” del 20 febbraio è apparso un ampio articolo a firma Laura Anello, di argomento storico, non “confinato” nelle pagine della cultura, ma collocato nella sezione “Società” e segnalato in prima. Il titolo è Il primo pizzo lo chiesero ai Mille (ma in prima pagina lo chiedono ai garibaldini). Il sottotitolo recita Ritrovato in Sicilia un documento inedito: e i piemontesi dissero di no (ma in prima a dire di no sono i Mille). La titolazione è vagamente antimeridionale ed il contenuto dell’articolo si presta a una lettura di questo segno; non è un caso che a riprendere l’articolo sul Web sia stato il forum “Padanik”, nel sito Politicainrete.

La storia è semplice e abbastanza divertente. Dopo la rivoluzione del 27 maggio 1860 a Palermo e la liberazione della città dai Borboni da parte delle camicie rosse e degli insorti palermitani, non pochi ufficiali e sottufficiali garibaldini insieme agli emissari del Regno di Sardegna si istallano nella città e vi restano anche per tre o quattro mesi. Spiega l’articolista che “gli austeri sabaudi non sembravano indifferenti alle piacevolezze siciliane”. E difatti si sollazzavano, “viaggiando in carrozza, allestendo appartamenti con mobili in affitto, godendo dell’alloggio nelle dimore più aristocratiche della città”. Tutto a spese della comunità palermitana.

Poco meno di un anno dopo, il 21 maggio 1861, il Comune di Palermo presenta il conto: l’Ufficio controllo, una sorta di ragioneria, invia a Torino tre diversi quaderni, chiamati “stati”, con l’elenco dettagliato delle spese sostenute. La cifra totale ammonta a 50 mila e più ducati sabaudi, che dovrebbero corrispondere a quasi un milione di euro di oggi. Nel primo quaderno è calcolata l’ospitalità a pagamento degli ufficiali nelle case nobiliari (un po’ meno della metà del totale), il secondo e il terzo all’alloggio in locanda di sottufficiali e soldati e alle spese varie. Per esempio l’acquisto di forchette e coltelli, il fitto e il trasporto di mobilia, un “posto in carrozza a don Agostino Menotti per raggiungere in tempo utile il suo Corpo”, quattro lettiere, l’erezione di un monumento, etc. Chi firma è un tal Filippo Fazzello, addetto al Controllo. Ma i destinatari piemontesi scopriranno che non poche delle spese indicate nel secondo quaderno, seppure in ordine diverso, tornano nel terzo quaderno che appare loro per gran parte un “dupplicato”. L’Ufficiale dell’Intendenza generale dell’esercito sabaudo alla cortese (ed esagerata) richiesta risponde con un diniego ancora più cortese e “circa le somministrazioni fatte al Corpo dei Volontari del 1860” comunica che il suo ufficio, esaminata la contabilità del Municipio di Palermo, “ebbe a convincersi del modo difettoso onde sono stati compilati gli stati d’alloggio” e della “totale mancanza di documenti giustificativi”. “Dice che, spesso, mancano il grado e perfino il nome degli ufficiali alloggiati. E quasi sbeffeggia una lettera precedente in cui l’imprecisione nella documentazione veniva giustificata con lo stato di guerra. In quei frangenti i locandieri mica potevano andare tanto per il sottile su chi ospitavano, si difendeva Palermo. I primi giorni magari sì, ma dopo due mesi dubitiamo che non sapessero chi avevano in casa, risponde Torino”. Il funzionario, tal G. Turletti, spiega infine che molte spese “sono di lor natura inammissibili come erezione di monumenti, leva di cavalli, riparazione a edifizi, compra di paglia ed altre simili” e rimette gli “stati” a “Vostra Signoria Illustrissima”, chiedendo che la contabilità “venga rifatta e modificata”. I ricercatori non sanno e non ci dicono come andò a finire.

Ho voluto postare qui la storia, non solo perché stuzzicante, ma anche per “annotare con matita rossa”, come faceva Turletti, da vecchio professore pignolo, qualcosa che nel titolo non funziona e che dà la vista di raccogliere e alimentare un pregiudizio. Il “pizzo”, ne ho scritto qui su un altro post, è la quota di un reddito che da un secolo e mezzo (più o meno dall’unità d’Italia) le associazioni mafiose chiedono per sé a imprenditori e proprietari per compensare la “protezione” o altri servigi resi. “Pizzu” è propriamente il becco degli uccelli e il termine significa che quando il padrone mangia, anche il mafioso ha il diritto di beccare (“pizzuliari”). Ma nella storia raccontata di pizzo mafioso non c’è traccia; se c’è qualcuno che, in senso lato, esige il pizzo sono proprio gli austeri sabaudi e gli indomiti garibaldini, tutti continentali. Il Comune di Palermo fa un’altra cosa: tenta, senza molto successo, di “fare la cresta” sulla spesa, abitudine sicuramente assai negativa, ma che non si può confondere con le tangenti chieste dai malavitosi, e assai diffusa (luogo comune per luogo comune) anche tra le “servette venete” un tempo rinomate. Cresta e pizzo sono parti del corpo di taluni uccelli, peraltro assai vicine: l’una e l’altra metaforicamente s’usano per “uccellare” il prossimo indifeso o malaccorto, ma non sono esattamente la stessa cosa, il pizzo può anche colpire e ferire.

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