18.4.10

"Che Guevara a Zanzibar". Per il centenario di Francesco Rosso.

In questo 2010 compirebbe 100 anni Francesco Rosso, un giornalista d’altri tempi, un inviato speciale pronto a partire dalla sua Torino per ogni possibile destinazione, in caccia di luoghi da rappresentare, di rivoluzioni da raccontare, di uomini e donne da conoscere e far conoscere. Sono rimaste celebri le sue interviste a Ben Gurion e al negus Hailé Selassié. Lavorò per “La Stampa” fino al 1976, quando si ritirò a vita privata, pur non rifiutando qualche collaborazione. Morì nel 2001.

Nel 1975, su sollecitazione di Giovanni Arpino che dirigeva la rivista “Il racconto”, costruì una sorta di reportage in differita, in cui rievocava i suoi viaggi a Zanzibar: la Zanzibar ancora coloniale del 1960, con i suoi mercanti indiani, i suoi bagni arabi e una finta joie de vivre, che era in realtà malinconia; la Zanzibar indipendente del 1964 dominata dall’ugandese Okelio che impazziva per l’odore del sangue, un amico e precursore di Amin Dada; la Zanzibar marxisteggiante della primavera del 1965, che si era federata con il Tanganica dando vita alla Tanzania. E’ proprio quest’ultima la parte del suo racconto che riprendo in questo post. (S.L.L.).

Il giorno in cui approdai per la terza volta a Zanzibar ricorreva il primo anniversario della rivoluzione e c’era gran festa. L’isola era ormai totalmente africana, di arabi non si vedeva in giro nemmeno il ricordo; solo pochi indiani mischiati ai negri applaudivano il piccolo esercito di Zanzibar, seicento soldati con fucili mitragliatori russi, 10 cannoni da 105 russi, trenta mitragliatrici antiaeree russe, che sfilavano impeccabilmente su un’improvvisata piazza d’armi.

Ai lati della strada che conduce all’aeroporto, la rivoluzione mostrava ancora il suo volto macabro. Ricordavo il mio primo arrivo, l’organo luminoso nel folto del palmeto. Oggi, infissi su alti pali, fantocci di stoffa simboleggiavano altrettanti capitalisti uccisi. Soltanto che, ad essere così impalati, non erano capitalisti bianchi, ma fantocci negri. Strana deformazione rivoluzionaria, di negri capitalisti a Zanzibar proprio non ne esistevano, a meno che non considerassero tali gli sgherri di Okelio che un anno prima aveva insanguinato il paradiso terrestre. Ma erano riflessioni oziose, contava invece la realtà del momento, rappresentata dai nuovi despoti di Zanzibar, decisi a rimanere autonomi nonostante la federazione con il Tanganica. Presidente si era autoproclamato il sig. Karume, che aveva nominato vice presidente il suo amico sig. Kawawa. Erano entrambi nella tribuna d’onore per assistere alla sfilata contornati dall’intero corpo diplomatico, una trentina di ambasciatori, decisamente molti per il piccolo stato, che al massimo avrebbe potuto aspirare ad essere una repubblica turistica, come San Marino ad esempio. Ma la sua posizione nell’Oceano Indiano aveva un’importanza strategica eccezionale e la presenza di tutti quei diplomatici ne offriva la riprova.

Guardavo la tribuna e fra il presidente e il vice presidente di Zanzibar vidi Che Guevara; la lunga e folta barba lo faceva distinguere tra mille, eppoi lo avevo già conosciuto a Cuba alcuni anni prima, nel 1961, quando ancora Zanzibar era un’isola assonnata. Ora stava lì, in mezzo a tanti rivoluzionari, gran sigaro tra le labbra, accaldato come tutti, ma forse lui di più, per via della pesante uniforme verde oliva. Era l’ospite d’onore, evidentemente, perché Karume e Kawawa gli stavano ai lati come due guardie del corpo. Avrei cercato di avvicinarlo, è chiaro ma più tardi; quella brevissima rassegna militare, la corrida, con il toro messo a morte da un espada poco esperto, che avevano organizzato proprio per lui, e che lo annoiava profondamente perché, da buon intenditore di toreria, trovava lo spettacolo decisamente scadente, mi imposero l’attesa. Nel frattempo avrei compiuto un giro per la città, per tentar di riconoscere i luoghi che già mi erano familiari.

Ricsciò, più niente, erano stati aboliti; gli uomini mulo tra le stanghe a trottare trainando il peso di un passeggero era contrario ai principi rivoluzionari e alla giustizia sociale. Noleggiai un tassì per compiere un giro nei dintorni. La campagna era rimasta inalterata, molti contadini non erano andati alla festa della rivoluzione e lavoravano a cogliere le rosse bacche dei chiodi di garofani, o correvano vertiginosi in salita e discesa lungo le palme ad abbattere noci di cocco.

Tornai in città e cercai rifugio all’hotel. Alla reception era cambiato il negro di servizio, ed erano cambiati tutti i camerieri, anch’essi africani. Ormai Zanzibar aveva perduto totalmente la fisionomia araba e indiana, anche se le case dai solenni portoni scolpiti, o chiodati, erano ancora lì a testimoniare il passato arabo dell’isola. Tutto, ora, dipendeva dagli africani, non più sanguinari, benché decisamente rivoluzionari. Domandai se la corrida sarebbe durata a lungo, se sapevano quanti tori sarebbero stati messi a morte. Dissero che lo ignoravano. Gli africani parlavano swaili, la lingua materna del Kenia e di buona parte dell’Africa Sud orientale, ma quasi tutti erano in grado di esprimersi in inglese; la dimestichezza con gli antichi colonizzatori e con gli indiani li avevano costretti ad imparare la lingua dei padroni. Gli arabi, invece, superbi un tempo della loro lingua letteraria, si erano piegati allo swaili, docili ai nuovi padroni, ma preferivano ignorare chi gli rivolgeva la parola in inglese: effetti della rivoluzione.

Che Guevara arrivò finalmente in albergo, era invitato a colazione e tutta la sala da pranzo era riservata a lui e ai suoi ospiti. Mi disse di attendere, avremmo chiacchierato dopo il pasto. Notai in lui qualcosa di strano, come una patina di amarezza e di delusione nel fondo degli occhi un pempo così vivi, animati da sguardi sorridenti. Era venuto in Africa nel 1962 con la segreta speranza di accendere rivoluzioni nei paesi ancora dominati dai colonialisti, o in quelli di regime borghese, anche se indipendenti. Era passato attraverso molti paesi, ma le rivoluzioni che egli sognava di accendere non erano esplose. Forse la sua amarezza derivava da quei fallimenti, ed era venuto a Zanzibar per respirare ancora aria di rivolta e dimenticare certe delusioni. Già allora, si diceva che fosse in disgrazia presso Fidel Castro, che la sua prova come ministro dell’industria si fosse conclusa con un disastro.

Entrai nella sala da pranzo mentre Che Guevara terminava la colazione in compagnia di Karume e Kawawa. Poco più lontano c’era il ministro dell’educazione di Zanzibar il quale, saputo della mia nazionalità, alzò il bicchiere e gridò: “Auguro al popolo italiano di vincere presto la sua rivoluzione popolare”: Guardavo Guevara e mi pareva singolare che Cuba facesse colazione con Zanzibar; le due isole non avevano niente in comune, tranne il clima: Nemmeno la rivoluzione era la stessa; Cuba guardava a Mosca, Zanzibar preferiva Pechino. La conversazione con Che Guevara fu breve, egli non aveva o non voleva dire molto sulla sua partenza da Cuba, sul suo lungo soggiorno in Africa. Non sapeva nemmeno quanto tempo sarebbe rimasto a Zanzibar, che pure gli piaceva. E Fidel Castro? Si rabbuiò, compresi che non era il caso di insistere. E’ stata l’ultima volta che lo incontrai; dall’Africa partì direttamente verso la guerriglia della selva boliviana. Fu tradito, catturato e ucciso pochi mesi dopo. La tristezza che avevo notato in lui a Zanzibar derivava da qualche suo funesto presagio?

Allora non potevo immaginarlo, ma mi parve strano, lui che era stato tanto loquace quando lo avevo incontrato a Cuba nel 1961, ed ora così assorto, addirittura assente quando ascoltava le domande, quattro anni dopo. Me ne andai per un ultimo giro del paradiso. Camminavo trasognato nell’aria pigra, intrisa di forti aromi. Caldo e pigrizia ovunque, sul limitare delle case e all’ombra dei palmizi, negli occhi degli indiani spauriti, dei negri assonnati e sdraiati all’ombra degli alberi e dei portoni. Per me Zanzibar, ormai, finiva lì, in una dimensione che non avrei potuto immaginare la prima volta che vi sbarcai, cinque anni prima.

(da "Il racconto", Anno I n.1, giugno 1975)

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