17.4.10

Il proibizionismo è fallito; la legalizzazione è il male minore (da "The Economist", 5 marzo 2010)

Un secolo fa, un gruppo di diplomatici si radunò a Shanghai per il primo tentativo internazionale di mettere al bando il commercio della droga. Il 26 febbraio del 1909 si accordarono per istituire l’International Opium Commission – solo pochi decenni dopo che la Gran Bretagna aveva combattuto una guerra con la Cina per il commercio delle sostanze stupefacenti. Seguirono molti altri divieti sulle sostanze psicotrope. Nel 1998 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dispose che i paesi membri si impegnassero per realizzare un mondo libero dalle droghe e per eliminare o ridurre notevolmente la produzione di oppio, cocaina e cannabis entro il 2008. Questo è il genere di promesse che piace fare ai politici. Allevia il sentimento di panico morale che è stato alla base delle pratiche proibizionistiche per tutto un secolo. E tutto ciò viene fatto allo scopo di rassicurare i genitori dei teenager di tutto il mondo; eppure è una promessa gravemente irresponsabile, in quanto non può essere mantenuta.

Dal 11 al 20 marzo, numerosi governi si riuniranno a Vienna per mettere a punto una politica internazionale in materia di droghe per il prossimo decennio. Come era accaduto tra i generali della prima guerra mondiale, molti affermeranno la necessità di fare tutto quello che si faceva prima, ma in misura maggiore. Di fatto, però, la guerra contro le droghe è stata un disastro e al fallimento registrato in molti paesi in via di sviluppo si è accompagnato l’aumento delle dipendenze negli stati più ricchi. Da qualunque punto di vista la si guardi, la battaglia degli ultimi cento anni è stata illiberale, inutile e omicida. Ecco perché “Economist” continua a credere che la politica meno nociva sia quella di legalizzare le droghe. Certo, dire che è “il male minore” non significa che sia una buona soluzione. La legalizzazione, benché sia opportuna per i paesi produttori, potrebbe comportare dei rischi per i paesi consumatori. Come si vedrà, molti consumatori di droga potrebbero soffrirne, soprattutto se particolarmente vulnerabili, ma a nostro avviso molti di più ne trarrebbero vantaggio.

La prova del fallimento

Oggi l’ufficio delle Nazioni Unite per le droghe e la criminalità non discute più di tanto a proposito di un mondo libero dalle droghe. Il suo vanto è che il mercato della droga si sia stabilizzato, il che significa che più di 200 milioni di persone, quasi il 5% della popolazione adulta del mondo, fa uso di droghe – pressappoco la stessa percentuale di un decennio fa (anche questa è una stima come tutte quelle che riguardano i dati sulle droghe: il rigore scientifico è un’altra vittima dell’illegalità).

La produzione di cocaina e di oppio è probabilmente la medesima di un decennio fa; quella della cannabis è aumentata. Il consumo di cocaina è declinato gradualmente negli Stati Uniti dal suo picco nei primi anni ’80, ma l’evoluzione non è costante (rimane più alto di quanto fosse a metà degli anni ’90), e sta aumentando in molte aree, compresa l’Europa.

Solo gli Stati Uniti spendono circa 40 milioni di dollari ogni anno per cercare di eliminare lo spaccio di droga. Si arrestano circa 1,5 milioni di persone l’anno per reati di droga, e mezzo milione vengono condannate; le leggi severe sulla droga sono il motivo per cui un americano nero su cinque passa del tempo dietro le sbarre. In questi anni molto sangue è stato versato a ritmi incalzanti. In Messico più di 800, tra poliziotti e soldati, sono stati uccisi dal dicembre 2006 (annualmente si parla di circa 6000 persone morte). E anche questa settimana è stato assassinato un altro boss del mercato della droga.

Il proibizionismo di per sé rafforza l’impegno dei “guerrieri contro la droga”. Il prezzo di una sostanza illegale è determinato più dal costo del commercio che da quello della produzione. Consideriamo la cocaina: il mark-up tra la coltivazione di coca e il consumo è di cento volte il costo reale. Anche se sui raccolti dei contadini venissero scaricate delle sostanze che distruggano le piante di coca, e questo ne quadruplicasse il costo, la conseguenza sarebbe solo un leggero impatto sul prezzo di strada, che è fissato piuttosto dai rischi del trasporto della cocaina in Europa o negli Stati Uniti.

Oggi i “guerrieri contro la droga” sostengono di sequestrare la metà della cocaina prodotta. L’anno scorso, negli Stati Uniti il prezzo della coca è sembrato crescere e la sua purezza diminuire.

D’altra parte si può evidentemente affermare che il business della droga si adatta velocemente agli sconvolgimenti del mercato. Al massimo, una repressione efficace, ha l’effetto di spostare i siti di produzione. Così l’oppio si è spostato dalla Turchia e dalla Thailandia al Mayanmar e al sud dell’Afghanistan, dove mina gli sforzi fatti dall’Occidente per sconfiggere i talebani.

Al Capone, ma su scala mondiale

Infatti, lungi dal ridurre il crimine, il proibizionismo lo ha rafforzato in una misura tale che il mondo non aveva mai visto prima. Secondo le stime delle Nazioni Unite, probabilmente un po’ gonfiate, l’industria illegale della droga vale circa 320 miliardi di dollari l’anno. In Occidente questo trasforma in criminali cittadini altrimenti irreprensibili (l’attuale Presidente degli Stati Uniti sarebbe potuto finire facilmente in prigione per i suoi esperimenti giovanili di “blow”). E rende anche le droghe più pericolose: i tossicodipendenti comprano cocaina ed eroina troppo “tagliate”; molti usano aghi infetti, contribuendo alla diffusione dell’HIV e gli infelici che soccombono al crack sono dei fuorilegge in mano ai loro pusher. Ma il prezzo più alto viene pagato dai paesi emergenti. Anche una democrazia relativamente sviluppata, come quella del Messico, si ritrova a combattere una battaglia di vita o di morte contro le organizzazioni criminali. Alcuni funzionari americani, compreso un ex zar della droga, hanno pubblicamente affermato di essere preoccupati ad aver un narco-stato come loro vicino. Il fallimento della “guerra contro” la droga ha portato alcuni dei suoi coraggiosi generali, specialmente provenienti dall’Europa e dall’America Latina, a prendere una posizione diversa riguardo la salute pubblica: ad esempio incoraggiando le persone ad usare aghi puliti. Questo approccio vorrebbe porre più enfasi sull’educazione alla salute pubblica e su come trattare i tossicodipendenti, ed essere meno incalzante nei confronti dei coltivatori di cocaina e meno repressivo nelle sanzioni inflitte a chi consuma per uso personale. Questo potrebbe rappresentare un passo avanti nella giusta direzione. Ma è improbabile che venga adeguatamente finanziato, e non si fa niente per impedire alla criminalità organizzata di agire.

La legalizzazione non solo terrebbe a bada i criminali: essa trasformerebbe la droga da problema di legge e ordine a questione di salute, ed è questo il modo in cui dovrebbe essere trattata. I governi tasserebbero e regolamenterebbero il commercio della droga e userebbero i fondi ottenuti per educare i cittadini sui rischi della droga e per curare i tossicodipendenti. La vendita ai minori dovrebbe rimanere vietata. A diversi tipi di droga dovrebbero corrispondere una diversa tassazione e regolamentazione. Questo sistema sarebbe complicato e imperfetto, richiederebbe un monitoraggio costante e un calcolo costi/benefici difficile da fare. (…)

Proporre un tale sistema alle popolazioni dei paesi produttori, dove la criminalità organizzata è al governo, è abbastanza semplice. È più difficile proporre tale sistema nei paesi consumatori, dove la questione delle dipendenze è al centro del conflitto politico. Molti genitori americani arriverebbero anche ad accettare il fatto che la legalizzazione possa essere la risposta giusta per gli abitanti dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa e addirittura a considerare la sua utilità nella lotta al terrorismo. Ma la loro paura immediata riguarda i propri figli.

La paura si basa sul fatto che la legalizzazione porterebbe ad un aumento del consumo di droga. Tale ipotesi potrebbe essere sbagliata. Non vi è correlazione tra la proibizione della droga e l’assunzione della stessa: i cittadini che vivono sotto duri regimi proibizionisti (ad esempio Stati Uniti o Gran Bretagna) assumono più droga, non meno. I “guerrieri contro la droga”, con imbarazzo, giustificano ciò con differenze culturali, ma in paesi simili, pur in presenza di legislazioni diverse, non cambia il numero dei tossicodipendenti: la severa Svezia e la più liberale Norvegia hanno lo stesso tasso di tossicodipendenti. La legalizzazione potrebbe ridurre sia la domanda che l’offerta.

Ci sono due motivazioni per le quali il proibizionismo dovrebbe essere scartato. La prima riguarda un principio di libertà. Sebbene alcune droghe siano estremamente pericolose, molte altre non sono così nocive (il tabacco crea molta più assuefazione che, virtualmente, tutte le altre messe assieme). Molti consumatori di droga, inclusi gli eroinomani e i cocainomani, vi ricorrono occasionalmente. La consumano perché ne traggono piacere, divertimento (come potrebbero fare con il whisky o con una Marlboro light). Non è compito dello Stato proibire che lo facciano.

E per quanto riguarda i tossicodipendenti? Questi sono in parte inclusi in questo primo ragionamento, dal momento che i danni subiti ricadono soprattutto su chi consuma. Ma la tossicodipendenza infligge sofferenze alle famiglie e comporta più estesi costi sociali. Ecco perché disincentivare il consumo di droga e curare la dipendenza dovrebbe essere una priorità politica. E ora la seconda motivazione: la legalizzazione offre l’opportunità di trattare il tema della droga e dei tossicodipendenti in modo corretto.

Fornendo adeguate informazioni sui rischi per la salute che si corrono assumendo diverse droghe e calcolando attentamente i prezzi da porre, i governi potrebbero guidare i consumatori attraverso la strategia della “riduzione del danno”. Il proibizionismo ha fallito nel prevenire la proliferazione di droghe sintetiche, create in laboratorio. La legalizzazione potrebbe incoraggiare aziende legali a “migliorare” le sostanze che si assumono. Le risorse ottenute dalle tasse e risparmiate sulla “lotta contro la droga” permetterebbero ai governi di curare adeguatamente i tossicodipendenti – in modo da rendere la legalizzazione più politicamente accettabile. Il successo dei paesi sviluppati nelle campagne contro il tabacco da fumo, che è materia simile in quanto a tasse e regolamentazione, costituisce un motivo di speranza.

Un rischio calcolato o un altro secolo di fallimenti?

Questo giornale ha sostenuto per primo il tema della legalizzazione vent’anni fa. Riesaminando di nuovo gli argomenti addotti (vedi l’articolo di vent’anni fa), il proibizionismo sembra sempre più dannoso, specialmente per i poveri del mondo. La legalizzazione non spingerebbe i criminali completamente fuori dal mercato della droga; come per l’alcool e le sigarette, ci sarebbero tasse da evadere e regole da trasgredire. Non si pretende nemmeno di “guarire” stati falliti come l’Afghanistan. La nostra soluzione è complicata, ma un secolo di evidenti fallimenti ci induce a sperimentarla.

Nota

Ho tratto l'articolo dal sito dell'associazione "A buon diritto". La traduzione è di Valentina Brinis.

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