23.4.10

La Resistenza nella scuola (dal "Quaderno" di Leonardo Sciascia - "L'Ora" 1965)

La Resistenza celebrata

Appena dieci anni fa, l’Italia ufficiale sembrava disposta non solo ad abbandonare ai radicali, ai socialisti e ai comunisti la custodia e difesa di tutti quelli che si sogliono chiamare “i valori” della Resistenza, ma a fare di tutto perché quei “valori” subissero una rimozione nella coscienza degli italiani e nella effettuale azione culturale e politica.

Oggi invece circolari ministeriali precettano la celebrazione della Resistenza: rettori d’università, provveditori agli studi, presidi, professori, prefetti, autorità dell’esercito e della polizia, parlano della Resistenza o ufficialmente partecipano alle manifestazioni già indette per celebrarla. I ragazzi tornano a casa col loro temino da svolgere, febbrilmente le famiglie si danno a ricercare notizie sulla seconda guerra mondiale, sul movimento partigiano, sui campi di sterminio nazisti, su Anna Frank: argomenti di cui i ragazzi a scuola raramente avevano sentito parlare, e qualche volta in termini ambigui se non addirittura negativi. E del resto in molti dei loro libri di testo ancora si parla del fascismo bonificatore di paludi, costruttore di città, rivendicatore dei diritti italiani di fronte al mondo; con qualche accenno alle cose che non andavano e un sospiro di rimpianto per i finali errori, quali l’alleanza con la Germania di Hitler e l’entrata in guerra.

E ci sarebbe da rallegrarsi che finalmente, nelle scuole e nei luoghi ufficiali, si parli della Resistenza come di un patrimonio che è ormai di tutti gli italiani, anche di coloro che l’avversarono e che l’avversano. Ma è in noi vivissimo il sospetto, alimentato dalla concreta esperienza, che in queste celebrazioni si insinui un che di mortale; e che la Resistenza, quello spirito, quei “valori” entrino nel pantheon delle cose che non sono più; delle cose rispettabili, intoccabili, solennemente reiette, solennemente morte. (19 aprile 1965)

La Resistenza nelle scuole

Difficilmente un giovane di liceo, o di altra scuola superiore, reagisce ad uno di quei temi sui valori stabiliti ed inamovibili della letteratura e della storia nazionale che da cento anni la scuola italiana impone. Il confronto tra Beatrice e Laura, tra Beatrice, Laura e Fiammetta, tra Beatrice e Francesca; l’analisi – naturalmente “estetica” – del decimo dell’“Inferno”, del trentatreesimo del “Paradiso”, del diciassettesimo dei “Promessi sposi”, della “Caduta” di Parini e dell’“Infinito” di Leopardi; il pensierino di Mazzini su religione, patria e famiglia; la frase di D’Azeglio o di Pisacane sul Risorgimento – sono temi che generazioni di italiani, dai bisnonni ai pronipoti, si sono trovati a svolgere sui banchi delle scuole. E sono sempre stati svolti, questi temi, nel più assoluto conformismo: nessuno che abbia mai osato scrivere che i confronti, di cui la scuola italiana prevalentemente si delizia, sono, oltre che odiosi, insensati; o che non vale la pena di scrivere tre pagine di carta uso protocollo su un pensiero di Mazzini che ormai anche i parroci sanno con più spregiudicatezza formulare.

Con il tema sulla Resistenza, precettato dal Ministero a tutte le scuole d’Italia, è accaduto però il miracolo, specialmente nel Sud: molti, moltissimi ragazzi hanno reagito. La vecchia crosta del conformismo scolastico è stata frantumata: ma quel che è venuto fuori è appunto la confusione e il torbido che soltanto la crosta del conformismo riusciva a nascondere.

L’ampiezza e l’incidenza di questo fenomeno di reazione appare – da quel poco che mi è stato confidato – piuttosto grave. E sarebbe forse il caso di autorizzare i professori a rendere aperta relazione di quel che i ragazzi hanno scritto sulla Resistenza, in modo che l’opinione pubblica possa prendere coscienza dello stato della nostra scuola.

Perché – questo è il punto – la Resistenza non è un tema di ricorrenza, quale quello sulla festa degli alberi o sulla giornata della Croce Rossa, ma è il tema stesso della scuola: dell’educazione, della formazione, della coscienza degli italiani; la chiave di volta, insomma, di ogni intendimento e di ogni azione presente e futura. Stando invece a quel che tanti ragazzi hanno scritto, la superiorità morale e storica del fascismo rispetto all’opposizione clandestina, al fuoruscitismo, alla rivoluzione popolare è così assoluta e indiscutibile che, riportando retrospettivamente tale visione alla storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, uguale risalto di superiorità assumerebbero la legittimità borbonica e il potere temporale. Che è un bel risoltato, dopo un secolo di esaltazione risorgimentale.

Le cause di questa situazione sono molteplici. La prima, d’ordine generale che non tocca cioè soltanto la scuola, è che la Resistenza è stata ulteriore ragione di differenza, se non di divisione, tra Nord e Sud (nell’atmosfera celebrativa questa verità mi pare sia stata detta soltanto da Giorgio Bocca); e la classe di potere ha fatto di tutto, in vent’anni, per dare alla Resistenza il carattere di una rivoluzione “rossa” scongiurata dal tempestivo e salutare avvento di una restaurazione di quei valori giuridici e ideali che anche il fascismo, pur con certe distorsioni e con certi equivoci, conteneva e che la rivoluzione del Nord aveva messo in pericolo. Per cui il Sud si convinse che in effetti si era risparmiato un bel guaio: e questa convinzione ebbe modo di coltivare e rafforzare attraverso quei processi che tendevano a ridurre i fatti rivoluzionari alle proporzioni di reati comuni, con responsabilità individuali o di un solo partito politico. E basti ricordare tutto il movimento investigativo e giudiziario che si ebbe intorno al fantomatico “oro di Dongo”: vicenda che è stata mossa con tale e suggestiva abilità che si può dire l’oro di Dongo ha avuto contro la Resistenza la stessa efficacia che la cagliostresca collana ebbe contro Maria Antonietta e la monarchia francese.

Ridotto un movimento rivoluzionario alla rubrica giudiziaria, le regioni d’Italia che non avevano partecipato appena sentirono un momento di smarrimento alla minaccia del “vento del Nord”: ma alla caduta del governo Parri (e in Sicilia anche prima, con l’arresto di Finocchiaro-Aprile e di Varvaro), videro lo Stato, quello che aveva fermato Garibaldi all’Aspromonte, proclamato lo stato d’assedio contro i Fasci socialisti, fornito ai fascisti anche i cannoni per distruggere le Camere del Lavoro, lo Stato di Morra di Lariano e di Bava-Beccaris, riaffiorare integro nelle sue strutture. E persino molti meridionali, che pure avevano partecipato valorosamente alla Resistenza, tornado nei loro paesi si mimetizzarono nell’opaca realtà del quieto vivere.

Nelle scuole, il 25 aprile fu soltanto un giorno di vacanza: come il 4 novembre o il Corpus Domini. Anche i libri di testo, del resto, prevalentemente davano all’avvenimento il significato di un tragico incidente – “i fratelli hanno ucciso i fratelli, questa orrenda novella vi dò” – verificatosi in una parte dell’Italia quasi per malinteso e comunque senza efficiente rapporto con la realtà storica della Repubblica Italiana. E credo che un maestro o un professore che avesse voluto fornire del fascismo o della Resistenza una più esatta ed efficace interpretazione la conseguenza di una ispezione o di un’inchiesta forse non avrebbe potuto evitarla. Se non ricordo male, un’antologia per le scuole medie di Natalino Spegno, in cui si parlava troppo di Resistenza, e in cui c’era troppo Gramsci, fu segretamente bandita.

Non c’è dunque da meravigliarsi che tanti ragazzi del Sud, scrivano oggi con indifferenza e insofferenza, se non addirittura con vituperio, di un avvenimento fino a ieri conosciuto più nelle sue declinazioni giudiziarie che nella sua portata storica (8 maggio 1965).

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