20.4.10

La tessera dell'Anpi (di Donato Salzarulo)

Avrei voluto scrivere qualcosa sul 25 aprile prossimo venturo, collegandolo alla orribile cancellazione della parola Resistenza dalle indicazioni per lo svolgimento dei programmi scolastici. Lo farò, credo, nei prossimi giorni. Ma nella rete (nel sito "La poesia e lo spirito") ho trovato questa testimonianza. L'autore fa il direttore didattico nella "scuola di tutti", a Cologno Monzese, uno dei Comuni della Brianza salvati dall'invasione leghista, anche grazie a persone come lui. E' una testimonianza personale animata da una calda passione civile: documenta con semplicità un rapporto con la Resistenza conquistato fin dai primi anni della giovinezza in Irpinia e continuato negli anni a Torino e nella Brianza. E' forse un pezzo un po' lungo per le abitudini dei frequentatori della rete, ma consiglio di leggerlo fino alla fine, fino alla indicazione di quella che potrebbe essere una nuova Resistenza (S.L.L.)

Da oltre vent’anni rinnovo la tessera dell’ANPI.

Prima me la portava un simpatico vecchietto in abito, cravatta e cappello di quelli classici, schiacciato su una testa ben fatta. Piuttosto tarchiato, aveva fronte rettangolare, occhi azzurri lampeggianti, eloquio fluente e, questo lo intuivo, una naturale curiosità per il mondo.

Si chiamava Luigi e l’occasione gli serviva a scambiare quattro chiacchiere con me. Era contento che un dirigente scolastico fosse iscritto all’ANPI ed era compiaciuto se, silenzioso come uno scolaretto, restavo un quarto d’ora ad ascoltare racconti e illustrazioni delle loro iniziative. Inevitabilmente finiva per ammonirmi: «E’ stato terribile, Salzarulo, è stato terribile!…Non dimenticate l’esperienza tragica della Resistenza, non dimenticate i valori antifascisti, gli ideali di liberazione per cui abbiamo combattuto. Lei che dirige una scuola ne parli coi docenti, li stimoli a sensibilizzare i ragazzi.»

Cosa che puntualmente facevo, rivolgendomi soprattutto alle insegnanti delle ultime classi. Qualcuna partecipava agli annuali concorsi a tema, portava gli alunni a visitare l’eventuale mostra di artisti o di fotografie dell’epoca, invitava il vecchietto nell’aula a farsi intervistare. Al termine Luigi bussava in direzione e passava a salutarmi soddisfatto.

Per quanto fossimo diventati con gli anni qualcosa di più che semplici conoscenti, non osava passare al Tu. Credo che non fosse soltanto rispetto per la mia persona e per la mia funzione. Era il luogo, innanzi tutto, che lo intimoriva. Nel clima culturale odierno, quanto questi nostri padri abbiano desiderato ed amato il diritto all’istruzione e la scuola pubblica è difficile da dire e far capire.


Che farsene della Resistenza in questo accidentato passaggio

dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica?

Fattosi più ardito, oltre che invitarmi sempre al Congresso, verso il 1998, ad un certo punto, mi propose di aiutarlo a scrivere e pubblicare un foglietto di informazioni della locale sezione ANPI. Mi applicai per un po’ e nacque Stella partigiana. Stavo rileggendo in quei giorni Stella variabile di Sereni e trasportai l’astro da un contesto all’altro, limitandomi a cambiargli l’aggettivo. Riporto le domande iniziali, in parte retoriche, con cui aprivo l’editoriale: «Che farsene della Resistenza in questo accidentato passaggio dalla Prima alla cosiddetta Seconda Repubblica? Limitarsi a depositare corone di alloro, ad accendere lumini, a far dir messa con memoria distaccata ed equidistante per i morti delle “due parti” o riprendere la riflessione, intensificare lo studio, continuare a nutrirsi dei “buoni maestri” antifascisti in guerra contro i “cattivi maestri” fascisti e nazisti? Riconciliarsi coi nemici, consegnando le pagine drammatiche della Liberazione e del riscatto ai cassetti del Tempo, che tutto oblia e cancella, o “proteggere le nostre verità”?…»

Luigi è da due anni ricoverato in una casa di riposo. Da tempo non mi portava più la tessera. «Non sta bene» mi aveva detto Arturo che l’aveva sostituito. Pure lui anziano, ma più magro e slanciato, più giovanile e ben conservato.


La stagione è nuova, ma tutt’altro che entusiasmante

L’ultima, quella del 2010, me l’ha consegnata un mio omonimo e collega in pensione. Ha sul frontespizio la bandiera tricolore che punta come un cuneo sulle due cifre rosse dell’anniversario: 65° della liberazione. E, sulla bandiera, l’augurio scritto a caratteri cubitali di una “UNA NUOVA STAGIONE PER L’ANPI”. In effetti, la stagione è nuova, ma tutt’altro che entusiasmante. Chissà che, prima o poi, non finirò anch’io con l’andare in giro per la città a bussare sulle porte per recapitare il cartoncino rettangolare dell’Associazione partigiana…

Non sono un amante di tessere. Preferisco usare l’Io piuttosto che il Noi. So che devo rispondere, in primo luogo, di me stesso, delle mie scelte ed azioni; ma so anche che senza quel Noi per cui si appartiene ad una lingua, a un genere, a un gruppo sociale, a una generazione, a una cultura, a una religione, a un Paese, ecc. quell’Io che mi sento addosso sarebbe trama largamente forata, teatro di coscienza esile e povera, reticolo sottile e assai fragile.

Ecco perché Gelmini potrà pure tacere sulla Resistenza, bypassarla ed eliminarla dalle Indicazioni e dai Programmi di ogni ordine e grado di scuola; ma, per quanto mi riguarda, sento di essere figlio di quei padri che, dopo il disastro dell’8 Settembre 1943, imbracciarono i fucili e salirono in montagna per formare gruppi o squadre di azione patriottica (GAP o SAP). Sento di appartenere alle famiglie di quegli uomini e donne che, in quelle circostanze storiche, scelsero la guerriglia partigiana al posto della Repubblica di Salò, rischiarono la loro spesso giovane vita per ridare dignità al nostro popolo, invece di restare in attesa dell’esercito anglo-americano che ci “liberasse” da nazisti e fascisti.

Proteggi le nostre verità

Non ho bisogno di nessuna identità ossessiva, ma dovendo scegliere fra uomini e avvenimenti del passato storico, non posso fare di ogni erba un fascio. I valori e gli obiettivi dei partigiani non furono e non sono quelli dei repubblichini. Liberare l’Italia dai nazisti non è la stessa cosa che esserne servi e complici; combattere la dittatura fascista, che aveva regalato al nostro Paese il sogno-incubo dell’Impero, l’oppressione e la negazione di ogni libertà, il disastro della guerra, non è scelta da equiparare a quella di chi ha fatto di tutto per continuare a tenere in vita la dittatura; proporsi di costruire una nuova società e un nuovo Stato non equivale a riproporre la monarchia sabauda…

Lo sappia Filiberto, il rampollo che recentemente ha cantato a San Remo col faccino delicato e la flebile voce. Intona parole false e melense, grazie alla democrazia che i nostri padri partigiani hanno conquistato contro i suoi avi imbelli anche per lui.

Non ho fatto la Resistenza, ma conosco il patrimonio di valori che, chiedendomi annualmente di rinnovare la tessera, i tanti Luigi e Arturo intendevano e intendono simbolicamente consegnarmi. Proteggi le nostre verità, continuano a dirmi. Proteggile dal logorio delle cose, dall’oblio del tempo, dalle derive sociali…

La letteratura e l’impegno del lettore

Devo dire che a questo patrimonio mi sono avvicinato molto presto. Mio padre era un iscritto al Pci, un comunista che aveva partecipato, nel dopoguerra, al movimento di occupazione delle terre, ricavandone tre mesi di prigione. Da bambino, qualche volta lo seguivo in sezione. Poi, quando arrivò la televisione, insieme a tanti che non l’avevano in casa, andavo lì attirato dalle “Avventure di Rin Tin Tin”. Il segretario della sezione, Michele mi pare si chiamasse, l’apriva puntualmente verso le cinque del pomeriggio. E… panico!, se qualche volta, non lo vedevamo arrivare.

Oltre che guardare la televisione, tra il 1964 e il ‘65, ho frequentato le riunioni domenicali della Fgci. Tonino, uno studente più grande di me, figlio del segretario di sezione, leggeva e spiegava articoli e documenti congressuali con modalità non sempre attive e coinvolgenti. Presto me ne allontanai, insoddisfatto. Insieme a Nicola Arminio, un amico poeta purtroppo già morto, fondammo allora in paese l’associazione politico-culturale “Nuova Resistenza”. Ci riunivamo al Centro, un palazzo dell’Unla (Unione nazionale lotta all’analfabetismo), grazie ad un insegnante compiacente che, per giustificare forse il proprio incarico verso i superiori, insieme ai corsi di alfabetizzazione per contadini, sollecitava queste forme di attività culturali. Noi avevamo fame di libri e la cosa importante era che lui riusciva a procurarceli, attraverso i finanziamenti Unla.

Nella bibliotechina del Centro, arrivarono così per pacchi postali La ragazza di Bube, Il sentiero dei nidi di ragno, La casa in collina, Uomini e no e, quasi fresco di stampa, il Fenoglio di Una questione privata… Arrivarono anche altri libri: saggi filosofici, opere poetiche, biografie. Io e Nicola sceglievamo prevalentemente dai cataloghi Einaudi e Feltrinelli. Francesco, questo il nome del maestro, ci lasciava fare. Era tempo d’impegno e noi praticavamo una “nuova resistenza”, organizzando incontri, conferenze, letture e discussioni collettive. Ricordo la mia prima conferenza. Si era alla vigilia del Sessantotto e io facevo esercizi verbali e di pensiero sulla “letteratura degli anni Sessanta e l’impegno del lettore”. Come Vittorini ero forse in preda ad “astratti furori”. Ma diventarono subito concreti a Torino, partecipando all’occupazione di Palazzo Campana.


Dar vita a una “nuova resistenza”

A scuola in quegli anni non ricordo professori che mi abbiano parlato della Resistenza. Eppure ogni 25 Aprile si restava a casa e veniva naturale chiedersi perché. “Anniversario della Liberazione”. Punto.

Gelmini, quindi, vuol farci tornare a quell’ordine e a quel clima pre-sessantottino. Ma stia attenta ai percorsi sotterranei!… Bandita dalle aule, la “nuova resistenza” può crescere come una talpa in luoghi impensati… A Bisaccia cresceva in un centro Unla.

Sessantottino e gruppettaro, ho trascorso un po’ degli anni Settanta a scandire slogan; tra cui quello sulla “Resistenza rossa e non democristiana”. Ovviamente cercavamo di convincere i nostri interlocutori “revisionisti” sulla giustezza – partigiana è il caso di dirlo – della tesi. Però noi avevamo fatto comprare il tomo di Romano Battaglia sulla Storia della resistenza italiana. Finito a Torino ad ottobre del 1967, è vero che non avevo avuto il tempo di leggerlo, ma la sensazione che le vicende fossero più complicate di quelle riassunte nei nostri slogan mi restava dentro. La cosa, comunque, che mi fece quanto mai sentire in sintonia con un’epoca e una generazione fu la scoperta, nel diluvio di riviste, giornaletti, ciclostilati che si pubblicavano in quegli anni, di un foglio che si chiamava “Nuova Resistenza”. Dentro c’erano articoli anche di Massimo Salvadori. Ne rimasi colpito.

In fondo, dà forza ed entusiamo scoprire che in un paesello irpino e nella grande città operaia del Nord gruppi di persone pensavano e progettavano di darsi lo stesso compito: dar vita ad una “nuova resistenza” come modo migliore per onorare e proteggere gli ideali, le verità e le conquiste sociali e democratiche dei partigiani.


La voglia di “camminare eretti

Non ricordo se nel 1982 o nell’83, un’amica maestra mi trascinò alla mostra sulla “Milano anni Trenta”. Portammo anche i nostri alunni. Il messaggio era chiaro: nonostante la dittatura fascista, la Milano modernista e futurista stava crescendo. Peccato che rimuovesse il marcio al suo interno e tacesse sulle leggi razziali, sui prigionieri politici, sugli esiliati. Come eravamo abituati a fare, discutemmo coi ragazzi e cercammo di evidenziare le diverse facce della medaglia. Il segnale, tuttavia, era chiaro. La piena negazionista e revisionista poteva dilagare. Da lì in poi i partigiani non furono più gli “eroi buoni”. Qualsiasi rappresaglia, qualsiasi episodio di efferatezza e di crudeltà venne sottolineato ed amplificato fino allo sdoganamento berlusconiano degli eredi del fascismo.

La Carta Costituzionale, quel patto che fonda la forma giuridico-politica di uno Stato e che regola i rapporti fra cittadini e istituzioni, in Italia è nata dalla lotta antifascista. L’8 settembre del ’43 crollò la patria fascista. Quella nazional-liberale era cominciata a crollare, per complicità e inettitudine, dalla “marcia su Roma”. Nei giorni dello “sbandamento” si mise in moto la patria antifascista, ma l’aveva già fatto da anni, scontando assassinii, esilii e carceri. Il suolo era uno, ma le patrie due.

Mille storici revisionisti non potranno negare questo fatto. E, infatti, non lo negano. Non sostengono che la Resistenza sia un dettaglio nella storia della Seconda guerra mondiale. Non sono negazionisti. Sono più sottili e subdoli. Riducono, ad esempio, il peso e l’importanza della Guerra di liberazione a favore dell’intervento degli Eserciti Alleati. Si adoperano a svilirne la carica simbolica, il moto di orgoglio di una parte di popolo, lo scatto di dignità, la voglia di “camminare eretti”, il coraggio di chi, a prezzo della vita, rivolge le armi contro i dittatori stranieri e di casa propria.


Trasformare le “passioni tristi” in calde

Su questa storia della patria, bisogna intendersi. Chi l’ha difesa più dei Resistenti? Coloro che hanno mandato a morire i nostri padri e fratelli in Africa, in Grecia o in Russia per dar vita al “sogno dell’Impero”? Ma che sogno era? Quali ne erano i contenuti? Era una parata di violenza, un incubo aggressivo, un concentrato di immagini crudeli, un’ostentata volontà di sfruttamento e oppressione di altri popoli. L’Italietta che si rifaceva Impero Romano. La storia ripetuta in tragica farsa.

I sogni dei partigiani, invece, erano quelli della stragrande maggioranza di uomini e donne. Erano sogni di libertà di tutti e per tutti, non di uno a spese dell’altro. Sogni di uguaglianza, che nasce cominciando con l’accettare le diversità. Sogni di fratellanza, di solidarietà, di aiuto reciproco nella miseria sociale e nel dolore. Sogni di giustizia.

Riesco ancora a trasformare le mie “passioni tristi” in calde, quando penso al grande lavoro fatto da questi nostri padri. Un po’ divento ottimista. Se sono riusciti in condizioni così drammatiche e tragiche – sempre mi prende un nodo alla gola, quando riapro le pagine delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza – se sono riusciti, dicevo, a donarci una delle migliori Carte costituzionali del pianeta, perché non dovremmo riuscire a vincere la sfida di chi, in nome di riforme ad personam, vorrebbe riportare indietro istituzioni e democrazia?

«Preoccupazione, profondo sconcerto e indignazione»

Ho sotto gli occhi il comunicato stampa della Segreteria nazionale dell’ANPI sull’omissione della Resistenza dalla bozza delle Indicazioni nazionali per i licei. Esprime «preoccupazione, profondo sconcerto e indignazione». Giusto. Giuste anche le proteste di partiti di opposizione e sindacati, delle Reti di studenti e insegnanti, di varie Associazioni. La scuola della Repubblica tanto amata e desiderata da Luigi non può cancellare la sua e la nostra storia.

Molto timidamente, però, vorrei ripetere: per me la “nuova resistenza” cominciò in un centro Unla. Da qualche parte oggi i giovani dovranno ricominciare. Dovranno combattere le cancellazioni, i silenzi e le reticenze di Gelmini, ma dovranno affondare anche le armi della critica nel clima sociale e culturale odierno, nel vento sempre più impetuoso del revisionismo antistorico che soffia dagli anni Ottanta. La maggioranza che ci governa ha tentato di equiparare con una legge dello Stato i repubblichini di Salò ai partigiani. Perché meravigliarsi allora delle iniziative del Dicastero della Pubblica Istruzione?

La Resistenza, prima di essere dimenticata nelle aule scolastiche, viene cancellata o mistificata nei programmi televisivi, nelle conversazioni di famiglia sempre più povere e scarse, nelle parrocchie, nelle sedi dei partiti e delle associazioni, nei luoghi di ritrovo… Non so. Forse la “nuova resistenza” è già cominciata. Bisogna soltanto scoprire in quali luoghi si organizza e quali volti ha.

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