30.5.10

Sulla Rivoluzione. Lettura critica di Hannah Arendt (1990)

Il testo che segue nasce come mio contributo ad un seminario sul tema della rivoluzione organizzato a Perugia nella primavera del 1990 dal Centro di Documentazione e Ricerche Segno critico. E’ stato pubblicato nel febbraio del 1991 su un opuscolo a circolazione assai limitata prodotto dallo stesso Centro e curato da Pino Tagliazzucchi. (S.L.L.) 
Hannah Arendt (1906-1975), intellettuale statunitense di origine ebreo-tedesca e di formazione filosofica (era stata l’allieva prediletta di Heidegger e Jaspers) è autrice di molti saggi di teoria politica: sul totalitarismo, la violenza, la disobbedienza civile, Rosa Luxemburg, il lavoro. Negli USA, in Germania e, più recentemente, anche in Italia la sua elaborazione è stata utilizzata a supporto teorico di nuovi movimenti (femminismo, ecologismo, neopacifismo) o come ancoraggio di un moderno radicalismo liberal-democratico. Il saggio Sulla rivoluzione, che è l’oggetto di questa esposizione critica, fu pubblicato per la prima volta nel 1963 e nella sua forma definitiva nel 1965. L’intenzione dichiarata è una ricognizione teorica, storica, fenomenologica sulla rivoluzione come nuovo inizio, come tentativo di rifondare la politica e la vita. Il bilancio che il libro traccia sulla tradizione rivoluzionaria è certamente negativo, ma esso non trasuda livore per le esperienze rivoluzionarie, sia democratiche che socialiste, per le quali anzi la Arendt mostra sempre rispetto, talora simpatia.

1. Politica e società
Il paradigma concettuale da cui la Arendt muove è una radicale opposizione tra il sociale e il politico, analoga a quella che caratterizzava Bakunin ed altri anarchici. Qui però il bakuniniano rifiuto della politica in nome della “rivoluzione sociale” viene capovolto. La società fondata su vincoli economici è il “regno della necessità”, governato dalla costrizione, dal bisogno, dall’ineguaglianza, ove il massimo di libertà e di felicità consentito attiene alla sfera del “privato”. Solo nella “società politica” si realizzano la pubblica libertà e la pubblica felicità e si superano le condizioni naturali e storiche della disuguaglianza, dato che nessun rapporto può essere considerato autenticamente politico, se non è un rapporto tra pari. Il compito di una autentica rivoluzione non può, perciò, essere, come per gli anarchici, quello di abolire il potere politico, semmai quello di instaurarlo. In questa luce la “questione sociale” non è più la buona radice delle rivoluzioni, ma piuttosto il morbo che le corrompe ed inaridisce.
In effetti la distanza della Arendt dal socialismo libertario è meno grande di quanto non appaia. Con molti anarchici essa ha in comune la valorizzazione del principio federativo, l’idea cioè della volontaria associazione tra liberi individui come fondamento della politica. Ai meccanismi burocratici e autoritari del potere statale contrappone, perciò, l’esercizio della democrazia diretta e di base. Anche qui, però, c’è un punto di divergenza dalla tradizione anarchica. Era presente in essa, a partire del Proudhon della formula Revolution en permanence, un filone di pensiero che tendeva ad ipostatizzare il conflitto tra libertà e Stato, immaginando una rivoluzione che non trova mai il suo pieno compimento. Da una parte si colloca infatti un potere oppressivo che, anche abbattuto, tende a rigenerarsi; dall’altra un bisogno di libertà sempre compresso, ma sempre pronto a risorgere. Non così per la nostra autrice, per la quale la rivoluzione ha il compito di costituire le libertà civili e politiche, tradurle in norma permanente, trasformarle in costume e in istituzioni. Per lei la spia del fallimento della rivoluzione e dei rivoluzionari è proprio l’abdicazione alla funzione costituente.
Da qui deriva la suggestiva antitesi libertà/liberazione, che pone la Arendt in netto contrasto con la tradizione marxista. Per Marx, infatti, la libertà acquista il suo contenuto concreto quando si traduce in atti di liberazione. Per la scrittrice americana ogni rivoluzione senza dubbio implica degli atti di liberazione da costrizioni d’ogni sorta, economiche, giuridiche, morali; tuttavia neppure una serie ininterrotta di questi atti è di per sé sufficiente a costituire la libertà politica. Tutt’al più ne possono derivare le libertà “negative”, le libertà personali e civili garantite dal controllo rappresentativo. Ma la libertà politica è assai più e non può darsi, come possibilità positiva e pratica, se non la si fonda, se non si costruiscono le condizioni e gli spazi per il suo esercizio.

2. Il mito della “polis”
A rafforzare questa teoria l’autrice pone un elemento mitico, non dissimile da quello presente nella tradizione marxista. Marx, ma più ancora Engels, e tanti altri sulla loro scia, utilizzando le suggestioni di etnologi come Morgan, di archeologi ed antropologi, ipotizzarono una sorta di democrazia comunista originaria, tipica delle prime fasi della società gentilizia. E’ un mito duraturo. Ancora nel 1976 Oskar Negt, un originale teorico della Suola di Francoforte vicino alla sinistra SPD, aveva visto nelle esperienze ottocentesche e novecentesche di democrazia rivoluzionaria “la rivivificazione del ricordo dell’originaria uguaglianza ed autogoverno democratico”.
La Arendt, invece, per sostenere l’aspirazione alle “pubbliche libertà”, ricorre alla polis greca, un altro mito depositato nella memoria occidentale e sedimentato nell’immaginazione sociale, anche dopo che l’analisi storica ha dimostrato il carattere ideologico di tante interpretazioni. E’ una debolezza teorica della Arendt, come quella del “comunismo primitivo” lo era della tradizione marxista. Un acuto decrittatore del pensiero “primitivo”, l’etnologo Giuseppe Cocchiara, ha ben individuato la funzione di questo genere di miti. L’esistenza in un passato indeterminato di una condizione originaria di libertà e di uguaglianza contiene in sé la promessa di un suo possibile recupero nel futuro.
Non si può escludere che siffatte mitologie possano esercitare un’azione positiva di stimolo nei confronti dei movimenti collettivi. E’ accaduto spesso, ad esempio, che nelle rivoluzioni anticoloniali si leggesse l’imperialismo straniero come usurpazione di antichi diritti da rivendicare con la lotta. Non mi pare tuttavia che i miti giovino a costruire teoria. Né per i marxisti, né per Hannah Arendt.

3. Le due sponde dell’Atlantico
Il saggio Sulla rivoluzione individua nella modernità il tempo storico delle rivoluzioni, l’età in cui il fenomeno si manifesta e la parola assume il significato attuale. Secondo la Arendt, infatti, solo nel XVIII secolo matura l’aspirazione non già ad una immutatio rerum, cioè ad uno dei ciclici cambiamenti di regime politico, ma ad un nuovo inizio, un novus ordo saeclorum.
Patria della moderna rivoluzione è l’America, il “mondo nuovo”, dov’era più facile costituire uno “Stato nuovo”. Il giudizio sulla Rivoluzione Americana è pertanto assolutamente positivo. Lì i Padri Fondatori poterono applicare un pensiero politico radicalmente libertario, perché le risorse naturali e lo stesso spazio fisico disponibile non lasciavano sviluppare la condizione della povertà, che in Europa, teneva moltissimi uomini lontani dal desiderio di “pubblica felicità”. La degenerazione delle “libertà americane”, il loro ridursi a “libertà private”, è fenomeno successivo, dei secoli XIX e XX, quando le masse dei nuovi immigrati sostituiscono al sogno originario della rivoluzione americana, legato a condizioni di vita austere, il nuovo “sogno americano” dell’abbondanza, del capitalismo avventuroso ed aggressivo, del consumo e dello spreco.
In Europa la pressione delle povertà induce, fin dall’inizio dei processi rivoluzionari, ad un paradossale “dispotismo della libertà”. Lo stesso principio della “necessità”, che conferisce al movimento il corso inarrestabile della “fiumana”, spingerebbe i rivoluzionari ad una teoria e ad una prassi totalmente diverse da quelle dell’altra sponda dell’Atlantico. Lì la rivoluzione aveva valorizzato gli individui, qui ben presto si afferma il principio della volontà generale, che prescinde dai singoli per iscriversi nella necessità storica. Il dispotismo, la caccia agli ipocriti, il terrore staliniano discenderebbero perciò tutti dall’aberrazione giacobina di una rivoluzione deterministicamente concepita come ineluttabile, di cui la violenza appare la necessaria levatrice.

4. Marx contro Marx.

A Marx la Arendt attribuisce, nella storia delle libertà umane, un ruolo rilevante, ma ambiguo. In lui, come quasi sempre in Europa, la scelta rivoluzionaria nascerebbe dallo scandalo della miseria, ma a differenza dei rivoluzionari fatalisti, egli avrebbe saputo, almeno fino al Manifesto del Partito Comunista del 1848, ricondurre la questione sociale in un ambito schiettamente politico. Infatti, in questa prima fase del suo pensiero, Marx presenta i proletari come sfruttati ed alienati proprio perché privi di libertà politica: le classi che hanno assoggettato l’intera società alle condizioni del loro profitto hanno potuto farlo perché detenevano il monopolio del potere politico. “Il primo passo della rivoluzione operaia – si legge nel Manifesto – è l’elevarsi del proletariato a classe dominante, è la conquista della democrazia”. Per la Arendt questo è il passo più importante, l’unico veramente decisivo: quando il proletariato si costituisce in classe indipendente ha già assolto al suo compito rivoluzionario. Il suo ruolo di classe generale si esplica infatti nel fondare per tutti le condizioni della libertà politica.
Si intende facilmente come la pensatrice americana svalorizzi il programma economico della rivoluzione, il sovvertimento del modo di produzione e di appropriazione. La rivoluzione, a suo parere, non può abolire la povertà. Il processo di espropriazione iniziato con l’ascesa del capitalismo non può essere arrestato dalla statizzazione dei mezzi di produzione: solo istituzioni legali e politiche indipendenti dalle forze economiche e dai loro automatismi possono controllare e frenare le potenzialità distruttive insite in questo processo. Compito della rivoluzione è perciò quello di affermare l’autonomia della politica, perché solo separandosi dall’economia ed emancipandosene la politica può, entro certi limiti, controllarla.
In uno dei suoi ultimi libri, Vita Activa, ove affronta la problematica del lavoro all’interno della condizione umana, la Arendt si mostra estremamente coerente con questa ispirazione. In dura polemica con la tradizione del movimento operaio (sia rivoluzionario che riformista) essa valorizza le posizioni più radicali, più “utopistiche” dello stesso Marx:
Il pericolo che la moderna emancipazione del lavoro non solo fallisca nell’iniziare un’epoca di libertà per tutti, ma al contrario spinga per la prima volta tutto il genere umano sotto il giogo della necessità, fu già chiaramente intuito da Marx quando egli insisteva sul fatto che lo scopo della rivoluzione doveva consistere nell’emancipazione dell’uomo dal lavoro.
Proprio per questo l’attenzione positiva della Arendt si concentra sul programma “minimo” (la democrazia) e sull’orizzonte utopico (il comunismo) del progetto rivoluzionario marxiano e tutta la diffidenza è riservata ai modi della “transizione”, al programma “socialista”. Il torto principale di Marx, dopo il Manifesto, è pertanto quello di aver ridefinito il suo slancio rivoluzionario in termini economici:
"Mentre in un primo tempo aveva visto la violenza e l’oppressione là dove altri avevano creduto in qualche forma di necessità inerente alla condizione umana, in seguito dietro ogni violenza, ogni trasgressione, ogni sopruso ravvisò le leggi della necessità storica (….). Così il ruolo della rivoluzione non era più quello di liberare gli uomini dall’oppressione dei loro simili, e tanto meno quello di instaurare la libertà, ma di liberare il processo vitale della società dai ceppi della miseria, in modo che potesse prosperare nel fiume dell’abbondanza. Non la libertà, ma l’abbondanza diveniva ora lo scopo della rivoluzione".
A spiegare questo capovolgimento di posizioni non sono per la Arendt ragioni biografiche o psicologiche (che anzi, ancora nel 1871, Marx era tanto rivoluzionario da entusiasmarsi per la Comune di Parigi anche in contraddizione con le sue teorie), ma un contesto storico-culturale, quello del positivismo, che lo spingeva a dare alla sua elaborazione la dignità di una “scienza esatta”. Ed allora la categoria fondamentale delle scienze naturali non era la libertà, ma la “necessità”:
"Dal punto di vista politico questa svolta condusse Marx a una vera e propria capitolazione della libertà davanti alla necessità. egli fece ciò che il suo maestro di rivoluzione, Robespierre, aveva fatto prima di lui e ciò che il suo più grande discepolo, Lenin, doveva fare dopo di lui nella rivoluzione più grandiosa e terribile che i suoi insegnamenti abbiano mai ispirato".


5. La deriva totalitaria
Dalla categoria della necessità scaturisce per la Arendt la giustificazione e glorificazione della violenza rivoluzionaria, ritenuta necessaria perché al servizio del principio vitale della storia, di quella forza onnipotente che, secondo il paradosso di Rourreau, avrebbe costretto gli uomini ad essere liberi. Per questa ragione, a partire da Robespierre, ma più ancora dal secondo Marx, l’idea della violenza necessitata imprime alle rivoluzioni un marchio di fabbrica e le sospinge verso una deriva totalitaria.
Del totalitarismo la Arendt aveva già elaborato nel 1951 (Le origini del totalitarismo) una delle teorie più compiute ed organiche, presentandolo come una forma di dominio radicalmente diversa dai vecchi dispotismi, perché non si limita a distruggere le capacità politiche degli uomini, ma tende a colpire gruppi e istituzioni che sono il tessuto delle loro relazioni private e li espropria per questa via di fattori essenziali d’identificazione.
Strumento del progetto totalitario è dunque un’inedita combinazione tra ideologia e terrore. La prima pretende di spiegare, indipendentemente da ogni verifica fattuale, il corso della storia, costruendo un mondo fittizio e coerente, da cui derivano linee d’azione garantite nella loro legittimità dalla loro presunta conformità con le leggi dello sviluppo storico. Il terrore totalitario aspira appunto a tradurre in realtà il mondo fittizio dell’ideologia.

6. I rivoluzionari
La parte dei rivoluzionari di professione di solito non consiste nel fare una rivoluzione, ma nel salire al potere dopo che la rivoluzione è scoppiata.
Questo giudizio icastico e liquidatorio della Arendt discende dall’analisi del concetto di pubblica felicità, così com’era maturato nel corso della Rivoluzione Americana. In origine era poco più di un calco di quei proclami regali che, mentre promettevano “il benessere e la felicità del nostro popolo”, in realtà alludevano al privato benessere dei sudditi individualmente considerati. Il significato si modifica da quando John Adams scopre che le persone affluiscono alle assemblee locali e i rappresentanti alle convenzioni non per un senso del dovere e, meno ancora, per un interesse privato, ma perché provano piacere nel discutere, nel confrontarsi, nel deliberare. Essere ascoltati, considerati, rispettati è una grande felicità e suscita la passione d’eccellere, la cui virtù è l’emulazione ed il cui vizio degenerativo è l’ambizione, poiché quest’ultima pensa di usare il potere come strumento per eccellere. In realtà l’ambizione nega la felicità pubblica nel suo fondamento. Non può esservi felicità di questo genere nel tiranno, la cui autorità risiede nella costrizione e non nella capacità di convincere, di interpretare gli interessi altrui, di proporre soluzioni accettabili.
Questo stesso meccanismo funzionerà nella Rivoluzione Francese, ove prenderà il nome di libertà pubblica. Vi fermenterà un’analoga passione per il solo “piacere di poter parlare ed agire”, entrando così nel “paese della considerazione”. Un tale piacere tuttavia è possibile, secondo la Arendt, solo in chi è già libero, è già “senza padroni”. Chi vive sotto padrone, infatti, sente odio per l’oppressione, non amore per la libertà; non aspira alla libertà pubblica, ma alla privata liberazione; non alla pubblica felicità, ma al privato benessere. La tragedia della Rivoluzione Francese nascerebbe appunto da questo contrasto. Da una parte ci sono gli hommes de lettres già liberi, che godono della felicità di partecipare alla rivoluzione, dall’altra i servi o i poveri che desiderano liberarsi del padrone o della necessità. La miscela è esplosiva perché spinge una parte dei rivoluzionari ad occuparsi del benessere del popolo più che della Costituzione.
Alla base di questa perniciosa scelta di molti giacobini francesi è una contraddizione originaria, radicale. Era già accaduto ai costituenti americani. Compiuta la loro rivoluzione, dovettero occuparsi più di diritti privati, garanzie, controlli ed equilibri che di pubbliche libertà; dovettero sancire la fine della rivoluzione e con essa di una parte fondamentale della propria felicità. Robespierre intuisce la contraddizione quando afferma che “il governo costituzionale si interessa soprattutto della libertà civile, il governo rivoluzionario della libertà pubblica” e cerca la via teorica e pratica attraverso cui far durare questo secondo tipo di governo.
Da qui, per la Arendt, si origina la teoria della rivoluzione in permanenza. Gli uomini della rivoluzione, che avevano conosciuto la pubblica felicità, in ogni occasione preferivano le libertà pubbliche alle libertà civili, desideravano che la rivoluzione non finisse mai. Essi, e dopo di loro quanti altri fra gli intellettuali subirono il fascino della libertà rivoluzionaria attraverso l’esperienza indiretta (letture, racconti eccetera), non guarirono mai dalla passione per la rivoluzione. Spinti dal bisogno d’azione, dalla compassione, dal senso frustrato della giustizia, intorno a questa passione fondarono una tradizione, costituirono un vero e proprio ceto sociale, che si rinnovava di generazione in generazione, quello dei rivoluzionari di professione. E’ in questo ceto che si originerà e radicherà il mito della “rivoluzione mondiale”, di cui ogni esperienza rivoluzionaria particolare non sarebbe che una preparazione o una tappa.
L’immagine dei rivoluzionari che la Arendt disegna è, invero, caricaturale e ingenerosa. La loro principale attività, nei caffè, nelle biblioteche, nelle prigioni, consisterebbe nello scrutare i segni di sfacelo della società, nell’elaborare teorie, nel polemizzare tra di loro, senza avere parte alcuna nelle agitazioni sociali e nei moti popolari, quasi sempre spontanei; la loro abilità massima consisterebbe nel trovarsi nelle sue vicinanze, quando la rivoluzione scoppia.
Questa lettura mette inevitabilmente tra parentesi la storia del movimento operaio, che non è fatta esclusivamente di rivendicazioni contingenti e di spontanee fiammate, ma di organizzazioni, avanguardie, culture, di un radicamento delle istanze rivoluzionarie nel conflitto sociale, sindacale, politico.

7. Consigli e partiti
Nel tracciare questa storia della Rivoluzione, in qualche modo degenerativa, la Arendt vi scopre tuttavia un “tesoro perduto”, la conquista forse più effimera nella sua efficacia attuale, ma nondimeno più preziosa e solida nel suo significato libertario. E’ la pratica e l’istituzione dei Consigli. Essi, con nomi diversi (Comuni, Soviet, Rate), ma con funzioni sostanzialmente identiche, nascono in tutti i processi rivoluzionari ed esprimono l’accesso al “cielo della politica” di strati popolari, un processo di diffusione delle libertà pubblica, che va oltre la cerchia dei “già liberi” e raggiunge i luoghi più lontani dagli stessi centri della rivoluzione. Il loro primo embrione è già evidente nella Rivoluzione Americana e in quella Francese e la loro massima aspirazione è a durare oltre la rivoluzione.
In America è il solo Jefferson ad intuirne il valore, a considerarli il solo strumento di mantenimento dello spirito rivoluzionario anche dopo la fine della rivoluzione. La sua è, però, un’opinione isolata e, già con l’approvazione della Costituzione, si avvia un processo di svuotamento della democrazia e della libertà. Non c’è, per la Arendt, autentica libertà politica, se non nella possibilità, per tutti, di partecipare direttamente al governo dello Stato. Una Costituzione che non riesca ad integrare il sistema dei Consigli nelle istituzioni repubblicane pone perciò inevitabilmente le premesse per l’affermarsi di un diverso sistema, quello rappresentativo, nel quale la “Politica” è sequestrata da professionisti e da burocrati. Infatti, senza l’istituzionalizzazione dei Consigli, il suffragio ampio o, addirittura, universale fa emergere il sistema dei partiti, la cui funzione è quella di raccogliere il “consenso”.
In Europa la radicalizzazione del processo rivoluzionario, nella Francia del 1793 o del 1871, nella Russia del 1905 o del 1917, nella Germania del 1919, dà luogo ad un percorso diverso, ma, in ultima analisi, convergente. Anche in Europa infatti, spiega la Arendt, lo sviluppo dello Stato liberale e l’estensione del suffragio elettorale, favorisce la diffusione del partito come strumento del consenso, secondo l’esatta previsione di Toqueville. Ma qui si sviluppa anche una forma particolare di partito: il partito rivoluzionario.
La dialettica tra “consigli” e “partito dei rivoluzionari” è presente già nella Rivoluzione Francese: il partito, ancora embrionale, dei giacobini tende ad utilizzare i consigli per la conquista del potere, salvo poi a trovare in essi un ostacolo per il suo effettivo esercizio. C’è per questo un susseguirsi di posizioni che prima valorizzano e poi svuotano. Robespierre, non ancora al governo, esalta le societés populaires come “pilastro della democrazia” e ne sottolinea il ruolo autonomo, indipendente dallo scopo di “delegare”, di “inviare rappresentanti”. Egli, per questa via, arriva a denunciare un conflitto latente tra rappresentanti e rappresentati, a vedere nella soppressione o nella sottovalutazione delle “società popolari” una “cospirazione dei rappresentanti del popolo contro il popolo” e nel principio dell’“indipendenza dei rappresentanti” l’inizio di un’oppressione. Appena giunto al potere egli tuttavia è tra i primi a combattere le “cosiddette società popolari”, contrapponendo ad esse “la grande società popolare dei tutto il popolo francese, uno e indivisibile”.
Un’analoga doppiezza, più di un secolo dopo, trova una tragica espressione a Kronstadt o nelle posizioni di un Leviné, il quale, durante la rivoluzione bavarese giunge a dichiarare: “I comunisti si schierano a favore di una repubblica consiliare in cui i consigli abbiano una maggioranza comunista”. Non è una consapevole e programmata strumentalizzazione, un diabolico marchingegno inventato dai rivoluzionari per accaparrarsi il potere. La doppiezza, per la Arendt, deriva dalla rinuncia della Rivoluzione a farsi Costituzione, dall’abdicazione della libertà a favore della necessità. Così, anche in pensatori estremamente consapevoli del sistema dei Consigli e del suo valore, come Proudhon o Bakunin, c’è una singolare sprovvedutezza nel non comprendere che la rivoluzione non può abolire lo Stato o il governo, ma deve mirare a fondare nuove forme di stato e di governo.
Così accade anche a Marx, il quale individua nella Comune di Parigi “la forma finalmente scoperta per la liberazione economica del lavoro” e ne proclama la generalizzazione “fin nel più piccolo villaggio”, ma che solo due anni dopo, nel 1873, conclude che la rivoluzione potrebbe trovare un impaccio proprio nei Consigli e dichiara che, durante la transizione rivoluzionaria, gli operai dovrebbero mirare al “più deciso accentramento dell’autorità statale e non lasciarsi confondere dalle chiacchiere democratiche sulla libertà dei comuni, l’autogoverno eccetera”.
Analogamente Lenin, nel vivo della rivoluzione del 1905, esalta i Consigli come espressione massima della “creatività rivoluzionaria del popolo” e nel 1917 reclama per i Soviet tutto il potere, ma arretra di fronte alla situazione di anarchia in cui la società russa, subito dopo la rivoluzione, sembra precipitata. Per Hannah Arendt Marx nel 1871 o Lenin nel 1905 avrebbero potuto dare un orientamento radicalmente diverso al loro pensiero ed alla loro pratica rivoluzionaria, ma
grande è negli uomini, anche nei meno convenzionali, la paura delle cose mai vedute, dei pensieri mai pensati, delle istituzioni mai tentate prima.
Marx e Lenin, nel conflitto tra Partito e Consigli, scelgono pertanto il primo, sicché il partito rivoluzionario, ove consegue il potere, diventa gradualmente lo strumento di un’oppressione tendenzialmente totalitaria.

8. L’utopia federativa
Il libro Sulla rivoluzione appare da questa lettura anche una requisitoria “contro la Rivoluzione”, o almeno contro le forme concrete in cui l’aspirazione democratica e libertaria ad un nuovo inizio si è realizzata tanto ad Est quanto ad Ovest. Lì il partito-stato totalitario, qui il partito-apparato in cui “il rapporto tra rappresentante ed elettore si trasforma in un rapporto tra venditore e compratore”. Il sistema dei partiti, comunque realizzato, depaupera la democrazia, sostituisce alla “formula governo del popolo da parte del popolo con quella: governo del popolo attraverso una élite scaturita del popolo stesso”. E questo avviene soltanto nel migliore dei casi perché spesso le oligarchie partitiche non si limitano ad impedire l’accesso alla vita politica dei cittadini in quanto tali, ma ricorrono a forme di manipolazione, soggiacciono alle forze economiche o realizzano una vera e propria oppressione.
Il modello che la Arendt propone si fonda invece su un principio radicalmente federativo. Una Costituzione autenticamente democratica e libertaria, oltre a garantire ad ognuno le libertà private, deve basare il governo sui consigli locali, i quali dovrebbero federarsi esprimendo rappresentanze revocabili fino ai livelli più alti. Il suffragio universale, in questo quadro, è inutile o addirittura deleterio. Non sempre i cittadini (e non tutti i cittadini) aspirano alle libertà pubbliche, desiderano partecipare alle assemblee, discutere, decidere: Ciò che garantisce il principio democratico è pertanto il diritto universale ad entrare nei consigli, non l’effettivo esercizio del diritto. A parteciparvi saranno forse in pochi, ma saranno i “migliori”, cioè quelli che apprezzano le gioie e le responsabilità della libertà pubblica e non sanno “essere felici” senza di essa.

9. Una provvisoria conclusione
Il libro della Arendt è bello e interessante, ma apre più problemi di quanti non ne risolva. Il suo vero limite non è la “poeticità”, che gli viene rimproverata da Hobsbawm, il celebre storico inglese, quanto lo stacco netto che introduce tra politica ed economia. L’osservazione più immediata e banale che induce è questa: è possibile una politica libertaria e democratica in una economia dominata dal capitale, in cui sfruttamento ed alienazione sottraggono ai più un’effettiva possibilità di partecipazione politica? In altri termini, è possibile una rivoluzione politica che non sia anche economica e sociale? La grande valorizzazione del pensiero di Rosa Luxemburg, che la Arendt definisce "autenticamente repubblicana", ma che fu anche autenticamente anticapitalista e socialista, lascia intendere che l’autrice intuisca questo impaccio nel suo proprio pensiero. Stupisce allora il silenzio totale sul tentativo di Trotzkij di legare teoricamente partito e soviet, integrando il primo nei secondi.
Credo tuttavia che, anche da un punto di vista dichiaratamente anticapitalista e marxista, la critica arendtiana dalla tradizione rivoluzionaria debba essere presa seriamente in considerazione almeno su tre questioni decisive: 1) la necessità di unire ai processi di liberazione la fondazione di nuove libertà; b) l’urgenza di una teoria dello Stato (che sovente il marxismo ha saltato), in particolare dello Stato nei processi di transizione rivoluzionaria; c) la critica della politica nelle forme concrete che essa ha assunto oggi, la forma-stato e la forma-partito.

Nessun commento:

Posta un commento