3.5.10

Walter Binni. L'uomo e il critico (da "micropolis" dicembre 1997)

Questo mio breve saggio biografico fu pubblicato per la prima volta su "micropolis" nel dicembre 1997, in occasione della scomparsa di Walter Binni. Entrò a far parte del volume collettaneo "Ricordo di Walter Binni" edito dalla Volumnia di Perugia nel 1998 (S.L.L.).Il primo libro importante, La poetica del decadentismo, Walter Binni lo pubblicò nel 1936, a soli 23 anni. Aveva appena conseguito la laurea a Pisa, allievo del Momigliano e del Russo, crociani eterodossi. Il primo aveva insegnato a Binni a diffidare dei canoni a priori, gli aveva consegnato l'idea che il critico è prima di tutto un lettore, non un giudice, e che la lettura richiede un certo grado di disponibilità, di innocenza. Il secondo gli consegnava invece un modello di un critico "libertario", "antiaccademico", fedele ad un’idea "assoluta" di poesia, ma attentissimo al farsi della poesia stessa, nei suoi elementi storici e psicologici. Il libro sul decadentismo rivelava le ascendenze, ma pure palesava i tratti distintivi di una personalità dotata di forte indipendenza. Lontano mille miglia dall'impressionismo romanticheggiante del Momigliano, lo era altrettanto da quella irrequietezza e da quella improvvisazione metodologica, che erano insieme vanto e limite della critica del Russo. Il saggio pertanto rivelava insieme un grande critico-lettore, ma anche uno storico rigoroso e consegnava alla successiva ricerca critica due lasciti, uno invero piuttosto ambiguo e in qualche modo fuorviante, quello di "decadentismo", l'altro assai più fecondo di positivi sviluppi, quello di "poetica". La tendenza italiana, a sussumere sotto l'etichetta di "decadentismo" tutta, o quasi, la ricerca letteraria e culturale tra Otto e Novecento, risaliva al Croce, il quale, nel suo radicato classicismo, profondamente diffidava di una produzione in cui sembravano scomparire insieme la trasparenza dell'espressione ed il riferimento ad una realtà univoca, pur nelle sue distinzioni dialettiche; ma fu Binni ad affermare definitivamente e a trasmettere la nozione di decadentismo non solo alla critica ed alla storiografia accademica, ma anche alla manualistica scolastica. Anche dal Binni, infatti, Nietsche, Mallarmè, D'Annunzio, Marinetti e perfino... Freud erano quasi posti sullo stesso piano, accomunati da un progetto di destrutturazione della forma e di smarrimento della sostanza.
Nella scelta storiografica e terminologica del Binni, per quanto appaia oggi inaccettabile, c'era tuttavia il merito di aver individuato una frattura storico-culturale, di aver seppellito per sempre la banale e rassicurante interpretazione del decadentismo come decadenza romantica e nel libro c'era anche una prospettiva civile assai coraggiosa nel tempo della guerra di Etiopia. Vi si legge, per esempio, la condanna dell'estetismo dannunziano come matrice ideologico-letteraria del bellicismo fascista: "...per l'atteggiamento decadente di veder tutto sotto la categoria dell'arte, del bello (si veda l'Armata d'Italia di D'Annunzio per avvertire l'origine di tanto nazionalismo guerrafondaio nell'equivoco estetizzante della bella violenza), la modernità fu fatta consistere in tutto ciò che, per esser bello, rifuggiva dall'utile".
Minore successo apparente ebbe la peculiare accezione che nella metodologia binniana acquistava la nozione di poetica. Già in quel lavoro giovanile "poetica" non era più soltanto la somma delle dichiarazioni programmatiche di uno scrittore sul suo modo di intendere e fare letteratura, ma era assai più l'intreccio particolare di vissuto individuale e collettivo, di cultura, di gusto che sostiene ed orienta nell'attività creativa; non la concezione del mondo, l'etica, l'estetica, in una parola l'ideologia dell'autore, ma piuttosto il legame tra tutto ciò ed il concreto inventare e scrivere, nesso sovente implicito e talora perfino inconsapevole. Per Croce rimaneva il rispetto, ma la rottura teorica non poteva essere più drastica. Veniva meno la concezione della poesia come intuizione "pura", come risultato di un'attività spirituale non soltanto autonoma, ma addirittura separata, e si abbandonava quel metodo critico che, specie in mano ad epigoni meno dotati del Croce, si rivelava una pratica insieme brutalmente giudiziaria (poesia sì - poesia no) e banalmente descrittiva.
Molti anni più tardi, nel suo più importante contributo teorico (Poetica, critica e storia letteraria) Walter Binni sottolineò questa presa di distanza ed al Croce riconobbe il merito di non essere rimasto crociano: il maestro di Pescasseroli non era rimasto fermo alle istanze della sua Estetica, ma attraverso il rapporto con altri critici e pensatori aveva saputo, almeno in parte, rinnovarsi.
Nel corso della sua lunga carriera di critico e di professore Binni ebbe anche lui il modo di mettere alla prova, di arricchire e di rinnovare il proprio metodo. Si cimentò con temi ed autori importanti, Ariosto, Alfieri, Carducci, il preromanticismo settecentesco, Michelangelo poeta, ma il suo poeta fu certamente Leopardi.
Fu nel ‘47, dopo le terribili esperienze della guerra, nel tempo stesso in cui partecipava, come deputato socialista, alla Costituente, che Binni portò a termine e pubblicò il primo dei suoi grandi saggi sul poeta di Recanati, La nuova poetica leopardiana. Il metodo della "poetica", grazie anche alla particolare sintonia tra autore e critico dava i suoi frutti migliori. Conosciuta nel suo farsi, nel suo rapportarsi non solo alle particolari esperienze dell'autore, ma anche al dibattito politico culturale dell'età della Restaurazione, la poesia ultima di Leopardi, espulsa dal canone e dalle antologie per il suo traboccare di pensiero ragionante, per gli sfoghi, i sarcasmi, le cacofonie, le spezzature, acquistava d'improvviso ricchezza e spessore, si riempiva di significazioni insospettate e le stesse scelte espressive ne risultavano corroborate. Insomma diventava perfino più bella.
E' noto a molti che un altro saggio importante, uscito in quello stesso fatidico 1947, il Leopardi progressivo di Cesare Luporini condivide con il libro di Binni la prerogativa di aver aperto la strada non solo ad una nuova stagione di studi leopardiani, ma anche al diffondersi al di fuori delle cerchie degli specialisti di una immagine più autentica e ricca del poeta recanatese, meno viziata dalle censure e dai fraintendimenti propiziati dai moderati di ogni tempo, di quelli dell'Ottocento che l'avevano bollato come il "maledetto gobbo" e di quelli del Novecento che lo avevano confinato nell'Arcadia dell'idillio.
Ciò avvenne molto più tardi, negli anni Settanta, anche attraverso il veicolo dell'insegnamento scolastico. Sulle cattedre di lettere dei licei e degli istituti tecnici cominciavano a trovare posto i ragazzi del Sessantotto. Si appoggiavano al Binni del ‘47, ma anche ad altri suoi contributi nel frattempo pubblicati, al Luporini e al più recente saggio del Timpanaro o sul materialismo illuministico di Leopardi. Grazie a questi sostegni scomparivano a poco a poco anche dalle antologie e dai manuali le immagini di Leopardi pessimista piagnucoloso, pastorello, oppure grande poeta nonostante la sua pseudofilosofia ed ai giovani si consegnava una figura di riferimento ed un messaggio, inquietante e non privo di contraddizioni, di un intellettuale "radicale", di un letterato che, proprio nel loro momento genetico, metteva fortemente in discussione i miti del progresso capitalistico.
Furono proprio gli scritti di Binni a dare a questa nuova più feconda lettura del Leopardi una più grande capacità di persuasione. Luporini e Timpanaro mostravano una grande simpatia per la poesia leopardiana, ma la loro analisi si svolgeva prevalentemente sul terreno della storia delle idee, era lo studioso perugino, con il metodo della poetica, ad indicare il punto di raccordo tra "filosofia" e "poesia". Il testo più importante in questo ambito, la prima organica sistemazione degli studi del Binni fu il saggio introduttivo alle opere complete del Leopardi pubblicate da Sansoni nel '69, Leopardi poeta delle generose illusioni e dell'eroica persuasione, poi ripubblicato con il titolo meno binniano e un po' a rimorchio delle mode La protesta di Leopardi. La ricostruzione integrale della vicenda umana e culturale del poeta di Recanati, pienamente inserita nel suo tempo, l'interpretazione acuta e geniale dei testi, mostrava come anche da uno "storicista" potesse elaborarsi una visione della storia non giustificazionista e pacificata, capace di mettere in evidenza come il prevalere nella cultura e nella società italiana dell'Ottocento di uno spiritualismo cattolico moderato e di un altrettanto moderato laicismo progressista fosse frutto non di una qualche necessità storica, ma di una battaglia culturale aspra in cui i radicali erano stati sconfitti; ma spiegava anche la modernità di Leopardi dando corpo all'intuizione gramsciana per cui Leopardi poteva ancora, nel Novecento, essere libro da comodino e Foscolo no.
Non furono solo rose e fiori per Binni: non mancò chi a destra gli rivolgeva critiche malevole rispolverando le teoriche del nonostante e inventandosi un Leopardi cattolico spiritualista suo malgrado, non mancarono critiche dagli epigoni del togliattismo letterario, che continuavano a giudicare Leopardi un poeta tagliato fuori dalla storia ed anche nelle rivistine paramarxiste dei tardi Settanta su Binni pioveva qualche censura malevola, per il fatto che egli conservava alla parola poetica una sua speciale aura, una sua peculiare eternità. "Un crociano è un crociano è un crociano - dicevano - anche se dissidente, e la sinistra crociana è l'equivalente farsesco della sinistra hegeliana contro cui Marx aveva acuminato le armi della critica". Forse, a leggere queste diverse e convergenti incomprensioni e malevolenze, Binni ripensava alle parole del suo Leopardi: "La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali, qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto". Ciò non impedì a Binni di tornare altre volte sul suo Leopardi con nuove stimolanti letture, come quella (degli ultimissimi anni) delle Operette morali.
Nel suo già citato manifesto metodologico Binni aveva delineato un modello ideale di critico letterario, che ha bisogno di una preparazione culturale storica e tecnica e che, tramite il suo giudizio, contribuisce alla nascita di nuovi valori poetici, un critico che è soprattutto "uomo etico-politico", capace di vivere fino in fondo i problemi del proprio tempo, "non artista mancato, ma scrittore impegnato". Credo che al modello Binni si sia moltissimo avvicinato.

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