Capita così di rado di leggere sui giornali o recuperare sulla rete delle belle storie di persone che lottano e non si arrendono, al punto che, quando accade, ti pare un dovere fare quel pochissimo che puoi per farle girare e forse conoscere. Con questo sentimento e questa speranza riproduco qui il bell’articolo di Marco Imarisio, pubblicato dal Corsera il 10 giugno scorso su tre donne che lottano per la verità, Patrizia Aldrovandi, Ilaria Cucchi e Lucia Uva, mamma la prima, sorelle le altre due di persone morte in mano “alla giustizia”. Già da tempo in relazione tra loro le tre donne-coraggio si incontravano a Varese per il convegno dedicato ai diritti negati e organizzato da “Libera” e “Amnesty International” (S.L.L.).
«Stesso dramma, trattate da imputate». Oggi insieme per la prima volta
Nella foto che verrà scattata questa sera c’è già un dettaglio mancante. Presto, accanto a Patrizia, Ilaria, Lucia, ci sarà da fare spazio a Maddalena, che vive a Milano e aveva un fratello un po’ disgraziato che stava scontando in Calabria una pena di 4 anni e 5 mesi di reclusione per il furto di uno zainetto.
Giovanni Lorusso è morto in carcere, con una mano misteriosamente fracassata, forse suicida, forse costretto al suicidio da un trattamento che, parole del procuratore di Palmi Giuseppe Creazzo, se non altro pone «enormi questioni morali».
Anche Maddalena ha scelto di dare una veste pubblica ai propri sentimenti. Ci ha messo la faccia, per dire che le modalità della morte «ristretta» di suo fratello non erano convincenti, che non voleva una verità, ma la verità, ne aveva diritto. Come ha fatto Patrizia, la mamma di Federico Aldrovandi, lo studente di Ferrara ucciso dalle botte di quattro poliziotti la notte del 25 marzo 2005. Come ha fatto Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto con le ossa rotte nel reparto detentivo di un ospedale romano lo scorso 22 ottobre, come sta facendo anche Lucia Uva, convinta che le lesioni che hanno portato al decesso del fratello Pino in un ospedale di Varese non siano certo classificabili alla voce «atti di autolesionismo».
Oggi si troveranno insieme tutte e tre insieme a Varese, per la prima volta. In attesa di Maddalena e delle altre che ancora non conosciamo. Nella presentazione del convegno sui «diritti negati», organizzato tra gli altri da Libera e Amnesty International, ci si chiede se la sicurezza è davvero un bene per tutti. La risposta, Patrizia, Ilaria e Lucia se la sono andata a prendere. Quando c’è stato da trasformarsi in Davide contro uno Stato-Golia che opponeva versioni di comodo, ambiguità e opacità alla morte di persone che aveva in custodia, sono sempre state le donne a farsi avanti, a mostrarsi per essere ascoltate.
Il sociologo Luigi Manconi, che con il suo lavoro da sottosegretario alla Giustizia e poi da presidente dell’associazione «A Buon diritto» ha avuto una parte importante nel far emergere queste vicende, dice che è una tendenza partita da lontano. Pensare alle mamme del Leoncavallo, che alla fine degli anni Settanta chiedevano giustizia per Fausto e Iaio e più avanti a Daria Bonfietti, instancabile propellente del comitato per le vittime di Ustica. «Si tratta di donne che hanno rifiutato di farsi schiacciare nella dimensione privata. Sono state capaci di trovare forza nell’angolo più intimo della loro anima, dove si gestisce il dolore, e di trasformare quel dolore in una risorsa pubblica, sotto forma di conflitto contro una autorità che proponeva loro verità di comodo. Patrizia, Ilaria e Lucia sono donne che fanno politica, nel senso più alto del termine». Manconi riconosce un momento fondante in queste nuove storie di donne alla ricerca della verità. Era il 2 gennaio 2006, quando Patrizia Aldrovandi pubblicò il primo post sul suo blog dedicato al figlio.
«Non creda che sia esaltante, non creda che alleggerisca il macigno». Oggi è una di quelle giornate così, che Patrizia è triste, una madre non può riempire il vuoto di un figlio che non c’è più con la giustizia avuta in tribunale. «Ci ho pensato anch’io a questa cose che siamo tutte donne» dice la mamma di Federico. «Forse è dovuto a un’esigenza imprescindibile, uterina, al modo che hanno le donne di essere legate alla vita e di non accettare la versione ufficiale sulla morte. Nessuna di noi cerca la solitudine. Io stessa mi affidai al blog per disperazione. Non so se adesso sta cambiando la percezione sui reati commessi dalle forze dell’ordine. Ma spero che la nostra sofferenza abbia aperto gli occhi a qualcuno».
Quando le chiesero di rendere pubbliche le foto del corpo e del volto martoriato di Stefano, Ilaria disse sì, a nome della famiglia. Anche se non le aveva mai viste, anche se era certa che suo fratello non avrebbe mai voluto apparire così. «Ma sarebbe stato il primo a volere giustizia per se stesso. E allora siamo andati avanti. Tra noi, parlo di Patrizia e di Lucia, ci sentiamo spesso. Abbiamo vissuto lo stesso dramma, ci diamo sostegno a vicenda. La chiami pure solidarietà femminile, se vuole».
Cattolica praticante, Ilaria Cucchi dice che la fede l’ha aiutata molto a gestire quella strana mescola di dolore e rabbia che sentiva dentro. «Non volevo che il male che stavo provando rimanesse fine a se stesso. Tutto ciò che ci accede ha un senso, anche per le cose brutte. E io cerco di fare in modo che la storia di Stefano possa servire ad altri».
Ilaria è convinta che non ce l’avrebbe fatta senza il precedente di Patrizia, Lucia Uva sostiene che senza Ilaria non starebbe combattendo questa battaglia per il suo Pino. È una donna semplice e consapevole. Primogenita di cinque figli, i genitori operai che da Trinitapoli, Foggia, sono emigrati sotto le Prealpi a lavorare sodo. L’ira per l’inerzia della Procura di Varese— «Ci trattano come se gli imputati fossimo noi» — si mischia alla consapevolezza di non essere più sola. «Ho seguito l’esempio di queste due amiche» dice. Il coraggio, si sa, è contagioso.
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