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La cucina
Carismatica in tutte le case era la presenza del Monsù, considerato la massima autorità tra i domestici e al di sopra del loro rango. Così si chiamava nelle famiglie aristocratiche del meridione, a cominciare da Napoli, il cuoco.
L’appellativo era una deformazione del monsieur francese, e tali erano considerati i cuochi sotto il regno dei Borboni, appunto, poiché la cucina francese era apprezzata e ammirata. A mia memoria, ci si rivolgeva a lui dandogli del voi.
A casa nostra, però, i piatti erano quasi sempre di cultura siciliana, ad eccezione del flan e delle rane al prezzemolo. Mattinate di grande agitazione in cucina, quando arrivava il misterioso sacco semovente e pieno di ranocchie prese al fiume. L’uomo che le portava aveva un sorriso soddisfatto per la fatica portata a termine e ironico per la stranezza dei gusti dei signori. Le rane non erano cibo popolare, ma bizzarra leccornia. E del resto ci voleva tanto di quel lavoro per renderle appetitose! […]
“Oggi don Mimì si fa onore!”. E, a voce più alta, perché le cameriere lo riferissero: “Bravo, bravo don Mimì! veramente lo meritate”.
Il Monsù si affacciava dalla cucina, situata a metà della scala – “a mezza scala” come si diceva – e rinviava i ringraziamenti tramite una delle due cameriere. come un tenore non si affaccia alla ribalta, se non dopo pressanti applausi, il Monsù saliva le scale per presentarsi a tavola, solo se reiterati appelli e complimenti lo spingevano. Questo poteva accadere per il grande timballo, o per il “pesce coricato” o per le melenzane alla parmigiana, cotte “a fuoco sotto e fuoco sopra”, cioè con i carboni accesi pure sul coperchio di rame. era un piatto sontuoso, intramezzato com’era da fette di caciocavallo e ricoperto da un prato di basilico.
Modello irraggiungibile di quelle fredde fette di melenzane, simili a seni vizzi, che popolano oggi le tavole calde. […]
Una critica o un commento all’esecuzione di un piatto dava la stura ad estenuanti duetti tra la padrona di casa e il cuoco. Le persone di servizio non erano autorizzate a “rispondere”, come allora si chiamava il tentare di far valere le proprie ragioni e l’aggettivo “rispostiera” era infatti sinonimo di pettegola o indisciplinata e si usava per un subalterno.
Ma la lingua si scioglieva in difesa del proprio operato, per discutere sulle regole di cottura o l’amalgama delle dosi o la quantità del sale. Cessava il rapporto di dipendenza e si apriva una disputa d’accademia: “Non si è mai sentito dire di una pasta con le sarde con salsa di pomodoro” diceva altera mia zia, con un piccolo ghigno di scherno. “Ma ci vogliamo mettere a fare la pasta con le sarde come il popolino palermitano? questa ci voleva!”. “ Voscenza mi permette, ma la principessa Giuseppina la ordinava sempre così”. “Mi meraviglio per la principessa” reagiva mia zia, già battendo in ritirata, che sarebbe stata grave mancanza di tatto coprire d’insulti l’ignara principessa, parlando a un cuoco. “A casa mia non si è mai fatto!”. La solennità della frase si addiceva a una questione di onore, e in queste ultime parole, veramente la baronessa mia zia metteva in palio la sua stessa lealtà per averla vinta nella disputa.
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