27.6.10

Via Tomacelli 146 (di Rina Gagliardi).

Una foto collettiva al manifesto
Rina Gagliardi è in prima fila in piedi, la terza da sinistra

Rina Gagliardi, giornalista, italianista, senatrice, fu soprattutto una compagna del manifesto, legata a quella storia e a quella scuola. Per ricordarla propongo la rievocazione dei primordi del giornale, che Rina pubblicò su uno degli inserti del ventennale, il n.6. Non c'è indicazione di data, ma siamo nell'aprile del 1991 (S.L.L.)

Come eravamo.

Pochi e poveri, ma belli

Il manifesto del 71, per chi l’ha vissuto, ha questa immagine “produttiva” antica, quasi ottocentesca. popolata di oggetti che non esistono più (salvo qualche ingombrante “lettera 88” che sopravvive nell’uso degli aristocratici irriducibili, come Pintor e Parlato). Suggestiva come un film in bianco e nero: E commovente, come sempre capita alla giovinezza. Umanamente parlando, il giornale dei primi anni era un microcosmo a “conduzione familiare”, tutto concentrato nella sede di via Tomacelli 146, che appariva ampia e accogliente con i suoi pavimenti in marmo “screziato” e un arredo “rimediato” di scrivanie e sedie vecchiotte. Eravamo pochi: 17 redattori di cui la metà principianti sui 23724 anni, e quasi altrettanti tra amministrazione, diffusione, centralino eccetera (totale del costo della voce stipendi nel 1971: 6 milioni al mese). Ed erano tante le donne: al “vertice”, dove insieme a Rossanda e Castellina, era di casa Lidia Menapace; in redazione; nei servizi generali (l’archivio, per esempio, erano “Silvana e Mariuccia”, quest’ultima destinata a diventare poi caposervizio spettacoli); e naturalmente nei servizi tecnici – dove spiccavano figure come Giovanna Falli (sette figli, una vita difficilissima alle spalle e un’inesauribile carica vitale), Elisabetta castellani (che, per scelta politica, decise di lavorare alla spedizione), Pina Casadei (che poi fu a lungo centralinista.

Direttore era Luigi Pintor, già allora prestigioso giornalista (e deputato) che cercava (invano? ma no) di insegnare il mestiere a riottosi sessantottini. Nell’aneddotica del primo manifesto è rimasto un episodio detto del ta-tse-bao: stufo di assistere a quotidiane sciatterie (del genere: fughe di massa “per andare alla riunione a Pomponazzi”, sede storica del Manifesto romano, prima che il quotidiano fosse chiuso, oppure articoli mandati in tipografia senza correzioni, o titoli, o data), Pintor distribuì un “ordine di servizio” in dieci punti, nel quale venivano specificati criteri piuttosto elementari di lavoro e di comportamento. La reazione dei "giovani” fu quella di appendere davanti all’ingresso un manifesto intitolato Pintor come Agnelli – seguivano rivendicazioni parafrasate dalla lotta di fabbrica di quegli anni, quali “autoriduzione dei ritmi” e “salto della riga”. Per le nuove leve non fu una gran figura. Ma fu, forse, il primo vero scontro generazionale.

I "vecchi”, allora, avevano, salvo eccezioni, quaranta-quarantacinque anni. Rossana Rossanda e Aldo Natoli furono a lungo redattori “semplici” della sezione esteri, retta da Luca Trevisani – un altro giornalista di razza che ha insegnato a tutti l’uso intelligente delle notizie di agenzia e la consultazione del Keesings.

Luciana Castellina, dall’abbagliante bellezza che mandava in tilt i tipografi, era il primo caposervizio della sezione sindacale, poi inviata speciale in Italia e all’estero (in una mattinate del 1972, mentre erano in corso le Olimpiadi di Monaco, arrivò il primo flash d’agenzia sui cinque atleti israeliani uccisi da un commando palestinese – alle tre e mezza del pomeriggio lei dettava da Monaco il servizio!). Valentino Parlato, di aspetto pressoché identico ad oggi (solo qualche capello in più), dirigeva l’economia e girava per l’Italia. Ma era anche un animale di redazione: “passava” i pezzi con ossessiva pignoleria, poi scriveva velocissimo, e sempre all’ultimo minuto. Nella stanza centrale di via Tomacelli regnava Michele Melillo, redattore capo unico, vero cuore e motore del giornale e delle sue quattro pagine. Non perdeva mai i nervi, al contrario di (quasi) tutti gli altri, e risolveva, con “sano e pazienta” spirito di mediazione, tutti i problemi – dall’impaginazione titolazione alle risse interne. All’estrema sinistra dominavano altri due personaggi chiave: Giuseppe Crippa, proveniente da Bergamo, amministratore unico, e Filippo Maone, proveniente da Napoli, prima capo-diffusione, poi manager e public-relations man. Erano gli uomini che reggevano l’azienda e le sue scarne strutture – sempre in economia di guerra.

Si cominciava a lavorare presto, nel ’71 – alle nove o giù di lì. Il giornale prima della teletrasmissione chiudeva alle 18 (o giù di lì). Non esistevano le “corte” e anche le vacanze erano scarse – come gli stipendi. La riunione di redazione, annunciata da uno storico campanello era intorno alle 10 e mezza/undici – poi un panino, e via, “al lavoro”. più che di scrivere si trattava di scegliere tra le decine di pezzi che arrivavano dei “Centri del Manifesto”, tagliarli, corregerli, spesso riscriverli – sempre tra mille proteste. Ma è difficile, forse è impossibile spiegare oggi cos’era un giornale politico “militante” (chissà perché, questa è diventata una brutta parola), legato, non armonicamente, a un partito, sommerso dalle notizie e dalle pressioni del “movimento”. E spesso entusiasta, talora infantile, sempre “imperfettamente” organizzato, un giornale “zingaresco”, diceva Aldo Natoli.

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