L’8 giugno del 1768 veniva assassinato a Trieste Johann Joachim Winckelmann, archeologo e storico dell’arte, ispiratore principe del gusto neoclassico nelle arti figurative e nella letteratura. Era nato nel 1717.
Figlio di un calzolaio prussiano aveva conquistato con fatica la protezione dei potenti (conti, prelati, cardinali) fino al successo della maturità sancito dalla nomina papale a Sovrintendente alle Antichità di Roma e alle onorificenze accordategli da Maria Teresa d’Austria ed altri regnanti fino alla morte in uno squallido alberghetto di Trieste. Vi era arrivato con il proprio assassino, ignorante e volgare, tal Arcangeli, e si era registrato con nome falso. Probabilmente il suo occasionale compagno lo aveva ucciso per derubarlo di alcuni medaglioni d’oro. Della storia, che presenta più di un mistero, si sono occupati scrittori di valore, come il grande comparatista Mario Praz, autore di una accuratissima ricostruzione della vicenda (L’assassinio di Winckelmann) e Dominique Fernandez (Signor Giovanni) che sembra insistere sui risvolti omosessuali dello strano rapporto. La fine di Winckelmann rammenta la morte di Pasolini: le due figure sembrano infatti accomunate da una dissonanza stridente, ma forse apparente, tra la tensione estetica e le scelte esistenziali “devianti”.
Il punto di partenza della vicenda intellettuale di Winckelmann è, a mio avviso, la cosiddetta “miseria tedesca”, cioè la rigidità dei rapporti umani e civili, il filisteismo borghese, la ristrettezza della vita culturale, la grettezza e l’ottusità delle piccole corti nella Germania divisa in staterelli. La stessa Prussia, regione nativa di Winckelmann, non faceva eccezione. Il re Federico II, uno degli esemplari con Caterina di Russia, dell’“assolutismo illuminato”, fu certamente energico nella razionalizzazione degli apparati amministrativi, ma il rapporto con Voltaire, segnato dall’incultura, dalle bizze, dalle impennate autoritarie del re, mostrano quanto poco spazio trovassero i Lumi e la “tolleranza” tra le classi dirigenti germaniche, perfino ai livelli più alti. In questo clima opprimente di stagnazione il disagio e la “noia" della gioventù colta si esprime talora in ribellioni scomposte e fughe individuali, ma trova anche sbocco in alcuni movimenti intellettuali di rottura: la battaglia di Lessing per una nuova drammaturgia, l’esasperato ribellismo dello Sturm und Drang, la mistica della passione ne I dolori del giovane Werther di Goethe e l’ondata di suicidi amorosi che ne precede e segue la pubblicazione, la scoperta del “popolo” e delle sue espressioni artistiche in Herder.
Il cosiddetto “neoclassicismo” di Winckelmann precede questi movimenti e li attraversa. Egli infatti reinventa l’Ellade, luogo deputato della bellezza e della grazia, ma, più ancora, giovinezza dell’umanità, pienezza della vita individuale e collettiva, mai più da allora conosciuta e forse irripetibile. Per quanto sottile è perciò visibile fin dall’inizio il filo che lega la lettura dell’antichità proposta del Nostro e i propositi di rinnovamento etico e civile presenti nella società. C’è una stretta parentela tra le ricerche del Winckelmann e quelle del cosiddetto “preromanticismo”, il che facilita il connubio nella letteratura ancor più che nelle arti figurative. Non a caso Goethe intitola Winckelmann e il suo secolo uno dei suoi libri più belli di storia letteraria.
Uno degli apporti più significativi dell'archeologo prussiano fu la nuova teoria del “bello ideale” che trova la formulazione più compiuta nel Saggio sull’arte del disegno nei Greci e sulla bellezza. Vi si afferma che le figurazioni più significative dell’Ellade antica “sono, come uno spirito etereo purificato dal fuoco, spogliate d’ogni debolezza umana, talmente che non vi si scoprono né tendini né vene”. Le opere più esemplari, tra quelle conosciute di questo ideale di bellezza, sembrarono a Winckelmann il Laocoonte, la cui bellezza gli appariva “come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata sia la superficie, e l’Apollo del Belvedere. Spesso tuttavia il pensiero dell’arte greca in Winckelmann si traduce in una incontenibile nostalgia per un mondo perduto. Nella Storia delle arti del disegno racconta di aver dappertutto cercato le tracce delle grandi opere, che però sembravano ai suoi occhi allontanarsi: “Così una tenera amante mira dal lido l’amore suo che solcando le onde si allontana e che non ispera di più rivedere”. La Grecia antica, del resto, gli appare la giovinezza del mondo, l’età, irrimediabilmente conclusa, in cui si concentrano “le sorgenti del bello, cioè l’unità, la varietà e l’armonia”. In questa luce l'omerica ed ellenica "nostalgia" (il termine fu coniato per esprimere nell'Odissea il "dolore del ritorno") si accosta alla romantica e germanica Sehnsucht, una più indeterminata aspirazione ad un altrove indefinito.
Nessun commento:
Posta un commento