9.7.10

"Il canto dei minatori" di Mario Rapisardi. Con una mia nota introduttiva e una postilla di Leonardo Sciascia.

Mi sono laureato con una tesi su La poesia politica e sociale di Mario Rapisardi. L’argomento lo scelsi io e il professore, sostanzialmente crociano pur professando idee genericamente socialiste, rimaneva persuaso, con il filosofo di Pescasseroli, che il socialismo fosse “grande ispiratore di piccoli poeti” e che, se in quel trombone retorico di Rapisardi (da studioso e simpatizzante di Carducci tale lo vedeva) c’era qualche perla da salvare, la si rinveniva piuttosto nella poesia naturalistica e “religiosa”, nella “meraviglia cosmica” che talora la caratterizza, non certo nelle sparate anarcoidi.
Il pregiudizio aveva qualche fondamento, almeno nella sua parte positiva: Rapisardi si cimentò nella traduzione di Lucrezio con esiti tutt’altro che disprezzabili, specie nella vivida e incantata rappresentazione dei grandi movimenti che presiedono all’atomica cosmogonia immaginata dal grande poeta materialista. Mi sembrò (e tuttora mi sembra) ingiusto nella parte negativa, nella svalutazione della poesia “impegnata”. Leggevo allora che alcune poesie sociali di Rapisardi, come questo Canto dei minatori o come il parallelo Canto dei mietitori, avevano accompagnato e in un certo senso preparato i Fasci Siciliani (la raccolta Giustizia esce nel 1882, circa dieci anni prima dello sviluppo del movimento) e avevo già costatato nella mia ancora breve ma già intensa militanza comunista come queste poesie si fossero depositate nella memoria dei capi del movimento di zolfatai e contadini che dalle mie parti aveva una lunga e alterna storia di lotte. Si trovava sempre qualcuno di questi dirigenti di base, autodidatti, che nelle feste politiche, nelle chiacchierate ideologiche, tirava fuori i versi di Rapisardi.
A me, d’altra parte, le poesie socialiste di Rapisardi non spiacevano affatto e la sua ottocentesca retorica non mi appariva peggiore di quella che tante volte si legge nel rivale Carducci, la cui letteraria e monarchica camarilla mosse guerra al poeta catanese. Nel breve giudizio che Gramsci, nei Quaderni dal carcere, dà del Rapisardi trovavo poi concetti convincenti (non era difficile, leggevo Gramsci come l’Evangelo), che mi guidavano nella interpretazione dei testi poetici: Gramsci dice che “non è un poeta materialista” e neppure “proletario”, ma lo vuole “democratico contadino”, legato in maniera autentica e sincera al mondo contadino, alla sua miseria e alla sua ansia di riscatto. Mi piaceva anche definire “popolare”, la poesia di Rapisardi, visto che per Gramsci popolare non è solo la poesia che i ceti subalterni si fabbricano da soli, ma anche quella di cui si appropriano e che usano, qualunque ne sia l’origine.
Dal mio relatore non ebbi aiuti; si accertò con qualche insidiosa domanda biografica e bibliografica che fossi diventato padrone della materia come davo impressione e mi diede fiducia (o, a seconda dei punti di vista, mi abbandonò a me stesso).
Una mano me la diede il professore Antonino Buttitta detto Nino, figlio del celebre poeta, socialista del Psi e, al tempo, grande amico di Totò Ciuffodoro Lauricella: era colto, estroso e apertamente simpatizzante per i giovani sessantottini. Qualcuno diceva che li corrompesse con la speranza di carriere accademiche o politiche; a me sembrava che agisse con più nobili intenzioni, quelle di recuperare ad una pratica di riformismo efficace, seppure non alieno da compromessi, giovani di nobili ideali ma propensi all’utopia. Avevo fatto con lui due esami, “Storia delle tradizioni popolari” ed “Etnologia” e dovevo essergli piaciuto. Una volta, non ancora laureato, mi chiamò a dargli una mano per condurre degli esami: eppure mi sapeva non particolarmente vocato a quel tipo di discipline e accline a studi più propriamente letterari. Sospettai che fosse una sorta di reazione istrionica a una qualche discussione con i suoi assistenti (magari li aveva sgridati: “Chiamo a sostituirvi il primo che passa, buoni a nulla!”). Non feci però verifiche, essendo il mio amor proprio assai soddisfatto.
Qualche dì più avanti andai a trovarlo e gli chiesi suggerimenti per la tesi: “Quando e quanto una poesia può dirsi popolare?”. Prima mi recitò solenne la rapisardiana utopia di Atlantide (“Ma una patria, una legge, un popol solo...”) e poi mi guardò come “un figlio deliro”. Mi disse che lui, frequentatore per passione e mestiere di popolani socialisti, aveva molti più elementi di me per dire che quelle poesie il popolo socialista le aveva fatte proprie. Al posto mio però non si sarebbe contentato di questo criterio empirico, un po’ estrinseco. Mi disse: “Bisogna confrontare i testi del poeta e i canti popolari del tempo, nei contenuti, nelle forme, nei contenuti della forma e nelle forme del contenuto”.
Era il 70 ed io di strutturalismi ero digiuno (ne feci indigestione dopo, da giovane insegnante); ma feci finta di capire, per vedere dove voleva arrivare. La prima cosa da fare – consigliava - era leggere e studiare i canti sociali e di lavoro delle principali raccolte, Pitrè, Vigo, Salamone Marino. Troppo per me, che aspettavo un figlio (sarebbe arrivata una figlia) e avevo fretta di laurearmi. Sfogliai comunque quei libri dedicando ad essi un paio di giorni, presi qualche appunto e qualcosa ritenni nella mente. Me ne servii, sporadicamente e impressionisticamente, nei commenti dei testi, ove ogni tanto certificavo: “la lirica può dirsi popolare, perché mi rammenta quello e quell’altro”.
Ho riletto, quarant’anni dopo, il commento che scrissi nel rosso malloppone della tesi sul canto dei minatori che qui vi propongo. Non mancano ingenuità e giovanili lungaggini, ma mi pare che individuassi bene il tema principale: l’emergere alla coscienza collettiva della divisione della società in classi e della lotta tra le classi. Sul “popolare o non popolare” di questa poesia rispondevo sì, ma molto a naso se non a caso. Oggi, più addestrato nella lettura ma tuttora con il limite della prima intuizione non verificata, mi sentirei di dire che il maggiore elemento di popolarità risiede nella ritmica, in quella sorta di tambureggiamento che sembra venire dal basso, dal fondo delle zolfare, dove questa umanità è come sepolta viva, in quel battere e levare (di picconi in questo caso) che accelera la cadenza e si fa forte e intenso come in certi canti dei neri d’America. Ma forse non è il caso di proseguire con le divagazioni, tra memoria e impudenza, ed è meglio leggere la poesia di Mario Rapisardi, con una postilla storica di Leonardo Sciascia (S.L.L.).

Il canto dei minatori
Tra cieche forre, tra rocce pendenti
Sul nostro capo, entr’oscure caverne,
Fra pozzi cupi e neri anditi algenti,
Fra rei miasmi, fra tenebre eterne,
-
D’ogni consorzio, dal mondo noi scissi,
A nutrir gli ozj d’ignoti signori,
Noi picconieri di monti e di abissi,
Sepolti vivi scaviamo tesori.
-
Scaviam tesori noi squallido armento
A voi tererno concilio di Numi,
Tesor di ferro, di zolfo, d’argento,
Tesor di gemme che abbagliano i lumi.
-
A voi la terra vestita di fiori,
Le cene, i cocchj, i teatri, le danze,
Gli stabili ozj, i mutevoli amori,
Il compro riso d’eterne speranze;
-
A noi non occhio d’azzurro, non sole,
Non aura sana d’amore e di vita,
Non guardo amico, non dolci parole,
Ma pena eterna, ma notte infinita.
-
Uomini forse non siamo? Qual tristo
destin c’infligge sì fiera condanna?
Se esiste Dio, se incarnato s’è Cristo,
Perché all’inferno ancor vivi ci danna?
-
Scaviam, scaviam: chi sa? forse tra poco
Ci mozza il fiato quest’aria maligna,
Ci schiaccia il monte, divoraci il foco:
Vedete? in fondo la Morte sogghigna.
-
Scaviam, scaviam le ree viscere a questa
Terra a noi ricca d’obbrobrj e d’affanni;
Finchè un sol guizzo di terra ne resta,
Scaviamo il trono dei nostri tiranni.
-
Stridete, su, negre macchine immani;
Argani, urlate; picconi, battete;
Tuonate, mine, scoppiate, vulcani:
Le nostre tombe alla luce schiudete.
-
Venuta è l’ora! Noi vili, noi rei,
Ai forti, ai giusti sorgiamo davanti;
Noi bulicame d’abjetti pigmei,
Mirare in volto vogliamo i giganti.
-
Noi v’abbiam dato l’immenso tesoro,
Che in sen chiudeva gelosa la terra;
Ma voi, titani dell’ozio, con l’oro
Avete mossa a noi primi la guerra.
-
Noi v’abbiam l’arche di gemme ripiene,
E voi le figlie ci avete corrotte;
Del ferro avete a noi fatto catene
Per inferrarci all’errore, alla notte.
-
Dal carbon tetro che il mondo ravviva,
Che vi sfossiamo noi maceri e lerci,
A voi calore, a voi luce deriva
E onor d’industrie e d’alati commerci.
-
Per voi spezziam le montagne, per voi
Scendiam nei letti dell’igneo granito;
E voi col marmo, negato agli eroi,
Colossi ergete a chi il pan ci ha rapito!
-
Eppur, credete, siam buoni e cortesi,
Benchè canaglia da forca e da fogna,
Patrizj biondi, panciuti borghesi,
Brindiamo un po’ non abbiate vergogna.
-
Brindiamo insieme al Lavoro che affranca,
Alla Giustizia che l’opere abbella,
Al pan che a noi, all’onor che a voi manca,
Ed alla Pace che tutti affratella.
-
Ma voi fremete, ed offesi dal lezzo
Dei nostri cenci torcete la faccia
E ci lanciate col vostro disprezzo
Un duro tozzo, una vecchia minaccia.
-
Voi minacciate? Codardi! Com’angue
Si sveglia l’odio, e la lingua saetta:
Non vogliam pane, ma sangue, ma sangue,
Ma un giorno solo d’allegra vendetta.
-
da Giustizia (1882)

Appendice (da Leonardo Sciascia, La corda pazza, 1970)
Erano gli anni dei Fasci Siciliani dei Lavoratori: e il mondo della zolfara prendeva coscienza di quel che Rapisardi affermava nei suoi versi: che proprietari e gabelloti, bestialmente sfruttando i minatori, avevano accumulato grandi ricchezze.
Proprio nel periodo di più acuta tensione, mentre il governo stava per decretare lo stato d’assedio contro le tumultuose rivendicazioni dei Fasci, un giornalista del nord scriveva: “nella mia vita giornalistica io ho assistito in Italia, in Francia, in Inghilterra, in Africa, in America a scene orribili d’ogni maniera: fucilazioni, impiccagioni, linciaggi, massacri, morti d’ogni specie e nei lazzaretti e altrove. Nessuno spettacolo mi aveva però così profondamente colpito come quello della zolfara…”. Si chiamava Adolfo Rossi, era stato inviato dal giornale “La tribuna”: e si trovò a scendere nella zolfara insieme all’onorevole De felice, uno dei capi dei Fasci. “Sapevano ambedue per aver letto la relazione Jacini e altre inchieste rimaste infruttuose, che cosa sono i carusi, ma nessuno scrittore potrà darne mai un’idea sufficiente a chi non li ha veduti in quelle vere bolge infernali… Ne avemmo una così profonda impressione di pietà, che ci mettemmo a piangere come due bambini”.
E diciamo “è stata” perché in quelle poche oggi in attività le condizioni di lavoro sono impareggiabilmente più umane; mentre altre sono ormai in disarmo, squallide e deserte strutture, oscure bocche sui fianchi delle colline, spenta terra rossiccia, là dove generazioni di uomini colsero, con sudore e sangue, avarissimo pane.

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