Sono lì, un lui e una lei, coperti da cache-sexe, dettagliatamente abbronzati, temporaneamente improduttivi, vicini, dividono lo stesso ozio, lo stesso sole, lo stesso vuoto. Hanno lo stesso odore, perfino (cocco, salsedine e derivati della carota). Sono puliti, più che puliti, tersi. Hanno goccioline di sudore al di sopra delle labbra, denti azzurrini, sonno.
Voglia di rimorchiare? Lui credeva, prima, per tutti gli undici mesi in cui ha atteso la vacanza, che ne avrebbe avuta. Invece, niente. La quantità di gambe lunghe, di mutandine praticamente ascellari, di natiche scoperte, di seni aggressivi disegnati sotto casti costumini di cotone trasparente, gli provoca sensi di sazietà da grande digiunatore. Pensa che non toccherà mai più una donna, che le donne sono come meringhe in vetrina, che “era meglio se restavo a Milano, almeno lì…”. Gli vengono malinconie leopardiane, vorrebbe fondare una corrente di pensiero, un gruppo 15 agosto, teorizzare sull’estrema difficoltà di far niente, nel cuore della cultura occidentale. Lei lo guarda, naturalmente, ma è uno sguardo così pigro, così vagante… come si fa a prenderlo per un invito a conversare, ad aggregarsi, insomma, a mettere le basi?
“Buon giorno!”, dice. Poi ancora: “L’acqua… era più pulita ieri”. Lei sorride, tutta ecologica. Parlano della foca monaca (un duetto), della polluzione, dei sacchetti di plastica, della buona educazione, dei treni, dei traghetti, degli aeroplani. Di dov’era lui l’anno scorso e dove andrà lei l’anno venturo. Montagna? A lei la depressione, a lui la dissenteria. Strano, al freddo. A lei è venuta una volta in Egitto. La conversazione è penosa. Lui non saprà mai che lei è una ragazza di rara sagacia, lei non saprà mai che lui è quasi un intellettuale. Ciononostante, lui offre a lei una bibitina. All’ombra, si piacciono un po’ di più, sembrano l’uno all’altra quasi umani.
Stanno zitti. Ma vorrebbero parlare, per coprire lo spazio che li separa dall’agognato calar del sole, quando, finalmente, tutta quella noia e quell’abbronzatura verranno riscattati dal compiersi del loro destino naturale. Notte, stelle, e infrattarsi da qualche parte.
Bene, lui e lei hanno finito di soffrire, di conversare a vanvera, senza saper che dire, perché l’estate stessa li isola come monadi nel vuoto. Lui le porge, solerte, le pagine del gioco, il settimanale è proprio piegato a questo punto un po’ bagnato, unto, pieno di segnetti a matita. Se lo sono passato già tutti, i suoi amici. “Ti va di fare il gioco dell’oca sessuale?”. Lei arrossisce, lui si accorge della gaffe e dice: “Oh scusa”. E’ fatta.
Giocheranno. Lei, gentilmente, lo lascerà perdere, visto che è questo il messaggio che lui, sbagliando, vuole far passare. Sesso io? Figurati! Solo i tuoi occhi… il sesso è solo un gioco.
Postilla
Questa cosina, leggera leggera, l’ha prodotta Lidia Ravera, nota soprattutto per aver scritto, in una giovinezza ormai lontana, in coppia con Marco Lombardo Radice, Porci con le ali. Poi ha fatto anche altre cose, non disdicevoli, ma non tali da modificare l’etichetta.
Il raccontino era evidentemente un lavoretto su commissione e accompagnava un gioco dell’oca con connesso quiz: 100 domande (a risposta multipla) del tipo Chi era soprannominata la Grande Orizzontale (Sandra Milo – Paolina Bonaparte – Madame de Pompadour) o Qual è la posizione preferita dagli italiani nel fare l’amore (Uomo sopra donna sotto – Donna sopra uomo sotto – Tutti e due sotto il letto). La nota editoriale avrebbe voluto che le 100, siffatte, domande preparate dalla Ravera fossero “di stimolo all’eterna schermaglia del piacere”. Non credo che succeda: i test e i quiz sul sesso, allora, non stimolavano nessuno che non fosse già stimolato. E credo che così la cosa continui a funzionare. Invece, riguardando il ritaglio ritrovato, ho gradito il racconto. Niente di che, ma mi ha dato gusto, forse per un vago retrosapore gaberiano (S.L.L.).
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