29.7.10

"Vittorini se n'è ghiuto". L'orgogliosa povertà di uno scrittore (S.L.L.)


Su “la talpa libri” de “il manifesto” del 9 ottobre 1991, Valentino Parlato rievoca l’uscita dal Pci di Elio Vittorini, nel 1951, e l’articolo di “Rinascita” che la salutò: “Vittorini se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato! Questo era il titolo, sprezzante (non a caso si usava una parola meridionale), del corsivo di Roderigo di Castiglia, cioè di Palmiro Togliatti. Avevo vent’anni, ero giovane e mi piaceva l’arroganza di Togliatti, ma quella volta mi sembrò gratuita: anche per i più giovani, quelli che non avevano vissuto né l’antifascismo né la resistenza, Vittorini era un mito, era due cose: l’America e Uomini e no”. Aggiunge Parlato: “A dirla tutta si dovrebbe dire che Vittorini ha rotto con Togliatti, perché noi abbiamo rotto con lui”.
Credo che sia giusto, anche se la lettura dell’epistolario di quegli anni (Gli anni del Politecnico. Einaudi, 1977) documenta un distacco lungo e complicato, con qualche tentativo di recupero.
“Il Politecnico", dopo che la polemica con Palmiro Togliatti aveva attraversato tutto l’anno 1947, chiuse con il numero di dicembre di quell’anno. Dopo l’indisponibilità di Einaudi a editare il mensile per il 1948 alle condizioni poste da Vittorini, segno dell’accerchiamento del Pci, qualche altro editore s’era fatto avanti, con l’intento evidente di dare alla rivista un segno anticomunista, ma lo scrittore siciliano aveva rifiutato le offerte. La dura battaglia per l’autonomia della cultura dalla “rivoluzione” e del “Politecnico” dall’occhiuta supervisione togliattiana non aveva ancora incrinato la sua volontà di rimanere in quel mondo, come segno di contraddizione.
C’è una letterina a Valentino Bompiani, del 23 febbraio 1948, che mi pare sotto questo aspetto emblematica. L’editore gli aveva proposto un incontro con Arthur Koestler, l’autore de Il buio a mezzogiorno, uno dei libri più duri, veri e belli sullo stalinismo. Scrive Vittorini: “Caro Valentino, so che Koestler non ama incontrarsi con i comunisti. L’ha esplicitamente detto. L’incontro potrebbe dunque prendere una piega spiacevole. E io resterei troppo male per te che la prendesse. E’ meglio che io non venga”.
Nello stesso torno di tempo dal partito gli scrive Mario Socrate che gli chiede di estrarre dai suoi scritti materiali per una mostra sulla cultura di sinistra (è imminente il 18 aprile). Risponde: “Sono ancora troppo demoralizzato della riunione tenuta con Sereni e Berti (il pomeriggio) e (soprattutto) della serata in casa Treccani, con Sereni che parlava camminando avanti e indietro e con tutti voi che non dicevate una sola parola… Francamente non riesco a pensare a nulla da mandarti per la mostra che state allestendo. “Il Politecnico” stesso che senso avrebbe di esporlo, quando non esiste più?”.
Intanto Vittorini scrive (Il Garofano rosso), traduce, fa da consulente a Einaudi, ma non gli mancano le difficoltà economiche. Emblematica l’autoironica lettera a Franco Fortini dell’11 giugno 1948, in risposta ad un invito dell’amico ad Ivrea, ove lavorava per l’Olivetti: “Perché non vengo ad Ivrea? Perché ho, triplicata, la tua stessa ragione di non venire a Milano. Rispetto a quello che io ho da spendere per i miei molti familiari (cominciando dal padre) guadagno neanche un terzo di quello che guadagni tu. E dicendoti questo voglio giustificarmi di non essermi spinto fino ad Ivrea un giorno della settimana scorsa che sono stato per Einaudi (tra mattino e sera) a Torino. Mi sono mancati i soldi per diramarmi da Torino a Ivrea, quei pochissimi soldi. E mi è molto dispiaciuto perché ero partito da Milano con l’intenzione di arrivare fino a te e fermarmi la notte a chiacchierare con te e tua moglie”.
Le lettere documentano come le difficoltà economiche, quando più quando meno, tormenteranno Vittorini fino al 1951, quando entrerà in pianta stabile alla Einaudi a dirigere la collana “I gettoni”. E “il partito”, in qualche modo, lo tenta: gli fa arrivare proposte che favoriscano (e, in un certo senso, documentino) il suo “allineamento”, il suo assoggettamento alla superiore disciplina. Il 6 giugno del 1950 legge su “l’Unità” che una commissione composta da Massimo Bontempelli, Ambrogio Donini, Carlo Muscetta, Luigi Russo e Natalino Sapegno ha proposto il suo romanzo resistenziale, Uomini e no, per il Premio Internazionale per la Pace e ai cinque indirizza una lettera assai dura. “Debbo avvertirvi che mi trovo in una situazione per cui non potrei assolutamente accettare un premio così impegnativo. Io sono stato, per tutto il periodo della guarra di liberazione così vicino ai comunisti da essere considerato tale e da considerarmi io stesso tale. Una serie di polemiche intorno ai rapporti tra arte e politica, alcune delle quali svoltesi a stampa, altre solo a voce, mi ha successivamente portato a un silenzioso isolamento. In questo oggi vivo, libero di restarvi o di uscirne. Ma un premio in denaro, come quello cui voi mi designate, mi toglierebbe questa mia libertà morale di oggi e mi condannerebbe praticamente a restare isolato per sempre. Perché mai io vorrei lasciar dire alla gente (entro e fuori il partito) di essermi riavvicinato ai comunisti in virtù di denaro”.
Vittorini, dopo molte esitazioni, non spedì la lettera e consegnò ad Albe Steiner le cinque copie dattiloscritte già firmate, oggi tra le carte del grande disegnatore comunista, suo amico. Preferì esporre a voce il suo rifiuto. Per l’anno successivo non rinnovò la tessera.

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