Il punto di partenza del ragionare di Macaluso è che la crisi della politica (grave dappertutto) in Sicilia è più profonda che altrove. Essa si manifesta sia come crisi democratica (la totale assenza della partecipazione popolare) sia come crisi dell’unità nazionale, anche in conseguenza del disfacimento dei partiti nazionali. Un gap analogo c’era in Sicilia dopo il luglio del 1943. Gli alleati in Sicilia diffidavano dei partiti nazionali, specie di sinistra, si affidarono perciò, come elemento d’ordine, alla Chiesa, alla mafia, ai vecchi ceti agrari, ai notabili del liberalismo prefascista. L’ottica complessiva era conservatrice, se non reazionaria. Don Lucio Tasca, capo degli agrari, buon amico del capomafia Calogero Vizzini, fu nominato sindaco di Palermo. Egli saluterà l’amministrazione militare alleata di Poletti come un momento di autogoverno della Sicilia. Questo mondo trova la sua proiezione politica soprattutto nel separatismo.
L’unica forza politica nazionale che sembra emergere dal marasma è la Democrazia cristiana, che in Sicilia ha la sua radice nel popolarismo sturziano e che costruisce abbastanza presto un gruppo dirigente orientato all’autonomia. A sinistra, invece, la confusione è grande e si registrano fenomeni incontrollati di ribellismo: bande che sotto il simbolo della falce e martello si richiamano al mito di Robin Hood, rivolte senza obiettivi, rifiuto della politica. Macaluso rivendica a Girolamo Li Causi ed al gruppo di giovani che si strinse intorno a lui il merito di aver fatto del movimento contadino per la terra, collegato alle più generali lotte per il lavoro, il protagonista di una grande riforma culturale e politica. La tesi di Macaluso è paradossale: all’apparente sconfitta economica e sociale corrisponde una importante crescita politica, sindacale, associativa, effeto di uno scontro durissimo che ha visto decine di dirigenti incarcerati (come Pio La Torre) o uccisi dalla mafia (come circa quaranta capolega socialisti e comunisti).
In effetti a metà degli anni Cinquanta il movimento di riforma sociale può apparire sconfitto. Le terre assegnate non hanno risolto il problema dello sviluppo anche per la caduta del prezzo del grano, principale coltura del tempo, e riparte l’emigrazione. I successi dei minatori contro le terribili condizioni di sfruttamento nell’industria estrattiva hanno registrato successi, ma quell’industria é nettamente in crisi e non si risolleva senza processi di ammodernamento e di verticalizzazione. A questa contraddizione le forze politiche, culturali e imprenditoriali più moderne e avvedute (il riferimento è a figure come il professore Giarrizzo o l’ingegner La Cavera) tentano tuttavia di dare una risposta progressiva, forti dell’alto livello di partecipazione popolare, attraverso lo strumento dell’autonomia regionale. Macaluso, da questo punto di vista, legge come un continuum il governo Alessi e i governi Milazzo, artefici del tentativo di dare impulso ad una borghesia produttiva siciliana, tentativo che, a fasi alterne, egli vede rinnovarsi nel tempo fino a tutti gli anni settanta. Dopo prevarranno nella borghesia e nella società le tendenze più retrive che sempre più faranno dell’Ente Regione un bubbone parassitario e che esprimeranno un’imprenditorialità in gran parte assistita e ammanicata con il potere politico, non senza collusioni e cointeressenze con la criminalità organizzata.
La crisi si accentua negli anni Ottanta e Novanta con l’implosione dei grandi partiti nazionali, in particolare dopo gli accordi di Mastricht. Alla base c’è anche il mancato rinnovamento del pensiero meridionale e una classe dirigente mediocre e conservatrice che si rafforza nel declino economico e culturale della società. Secondo Macaluso si sarebbe dovuta spostare la battaglia dal terreno del rivendicazionismo a quello dell’autoriforma, l’unico nel quale si sarebbe potuta selezionare una nuova classe dirigente. E invece no: quello che è venuto è un ulteriore degrado. Ma l’anziano dirigente politico non dispera e non demorde: è convinto che un contributo possa venire dalle nuove generazioni, da un ripensamento del meridionalismo, da quel profondo esame di coscienza collettivo che ha reclamato il presidente Napolitano quando nel 2009 ha commemorato Giustino Fortunato.
Le parole dell’anziano dirigente politico sono pesanti, seducenti e nutrite di storia, l’impegno etico è vigoroso e generoso. Pure qualcosa manca, di molto importante. Macaluso non sa indicare il punto di aggancio per l’autoriforma, il movimento di lotta economica e sociale che dovrebbe assumere nelle condizioni di oggi il ruolo rivoluzionante che ebbe la lotta per la terra. Non è un problema esclusivamente suo, ma di tutti noi che amiamo la Sicilia e la vorremmo riformabile e riformata. Non basta dire “ricominciamo”, bisogna cercare di capire da dove può ricominciare, nelle forme dei tempi nuovi, la partecipazione politica collettiva e di massa.
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